Libia nel caos, se Monti ha una politica estera è ora di farla vedere

Libia nel caos, se Monti ha una politica estera è ora di farla vedere

A Tripoli si spara mentre il Consiglio Nazionale Transitorio è sempre più in difficoltà e la Libia si avvicina, traballante, all’appuntamento elettorale del 19 giugno per la nomina di una Assemblea Nazionale. La data non è scontata. Da tre giorni in Libia sono aperti i centri per la registrazione dei votanti, ma l’organizzazione appare ancora in alto mare. Dove si voterà non si sa, chi controllerà neppure. Voci si susseguono su uno spostamento delle elezioni ad ottobre. A premere sarebbero soprattutto i membri del Cnt stesso. Tenersi la poltrona il più possibile è un proposito che accumuna nazioni e culture di tutto il mondo. Il Cnt infatti dovrebbe conseguentemente sciogliersi.

Prontamente costituitosi il 2 marzo 2011, pochi giorni dopo l’avvio della rivolta in Cirenaica, e altrettanto velocemente riconosciuto da diverse potenze straniere come Francia, Qatar, Italia, Turchia e molti altri, il Cnt si è posto in questi mesi come la nuova autorità legittima in Libia. L’intervento delle potenze esterne a suo sostegno e in aiuto ai ribelli, grazie al supporto logistico, il finanziamento e l’azione militare della Nato, hanno notevolmente contribuito a rafforzare la percezione di indispensabilità del Cnt come referente politico.

Tuttavia alla forte legittimità esterna del Consiglio nazionale non è corrisposta una altrettanto forte legittimità interna. L’autorità centrale non è rappresentativa delle varie componenti politiche e territoriali del paese. Al suo interno convivono ex-esponenti del regime come lo stesso Mustafà Abdel Jalil, tecnocrati e docenti universitari vissuti in Libia e all’estero. Un sondaggio dell’Università di Oxford e dell’Università di Bengasi, il primo assoluto che aveva come obiettivo un’indagine sull’opinione pubblica condotto con metodi scientifici, ha messo in evidenza come il Cnt sia attualmente indicato come una delle istituzioni verso la quale vi sia più fiducia, ma anche che la sua legittimità declini rapidamente nel tempo. I libici hanno piena consapevolezza della precarietà della situazione politica attuale. Pochi giorni fa un folto gruppo di miliziani ha armati ne ha circondato la sede chiedendo di entrare nel governo provvisorio.

La settimana scorsa il Cnt, che conserva poteri legislativi, pareva aver sfiduciato il governo provvisorio che esso stesso aveva nominato nel novembre scorso, un chiaro tentativo di scaricare le responsabilità della caotica situazione del paese sull’esecutivo per salvare se stessi. Il primo ministro libico ad interim, Abdel Rahman El-Keib, aveva accusato il Consiglio Nazionale di Transizione di «ostacolare gli sforzi del governo volti a tenere nei tempi previsti le elezioni per l’Assemblea». All’interno del Cnt i componenti più islamisti supporterebbero Mustafa Abu-Shakour, il vice di El-Keib quale nuovo primo ministro. Altri appoggerebbero Mustafa al-Rajbani, attuale ministro del lavoro.

Il confronto tra Cnt e governo non è l’unico né il più preoccupante. Il Cnt aveva emanato la settimana scorsa una proposta di regolamentazione della società civile e dei partiti politici, che escludeva tutti i partiti costituiti su base locale, regionale o religiosa, un tentativo di arginare l’insorgenza di centinaia di fazioni politiche, che è stato subito accolto negativamente dalle forze della Fratellanza Musulmana, e altrettanto prontamente ritirato.

La legge proibiva i finanziamenti esteri dei partiti: un possibile intervento contro le formazioni appoggiate da alcuni paesi arabi, per esempio il National Gathering for Freedom, Justice and Development, un partito con a capo Ali Sallabi, una delle maggiori e più influenti figure religiose del paese, vicino all’islamista egiziano Yusuf al-Qaradawi, e con importanti connessioni con il Qatar e il gruppo militare di Abdel Hakim Belhaj in Tripolitania e con quello del fratello Ismail Sallabi in Cirenaica.

Insomma il Cnt lotta per la propria sopravvivenza più che per il bene del paese, una lotta di potere a tutto campo che coinvolge regioni, fazioni locali, milizie armate e governo provvisorio al limite del collasso del paese. Ultima mossa del Cnt una legge che proibisce ogni apologia del regime precedente. 

La comunità internazionale, sostanzialmente responsabile della caduta di Gheddafi, sembra fuggire alle proprie responsabilità. Restando validi gli insegnamenti derivanti dallo scenario iracheno e afgano, ossia la necessità che il processo di state building resti essenzialmente in mano alla popolazione locale, la comunità, in particolare l’Europa e l’Italia, avrebbero evidenti vantaggi da un maggior coinvolgimento nella stabilizzazione del paese, che rischia sempre più di scivolare verso una situazione di perenne conflittualità a bassa intensità e anarchia. Le elezioni possono essere una grande opportunità di legittimazione vera del quadro politico, come successo nella vicina Tunisia, ma queste dovranno essere condotte in modo credibile altrimenti costituirebbero un’ulteriore spinta verso l’abisso. 

L’Italia, uscita con le ossa rotte dalla Primavera araba, sta attraversando una fase di profondo ripensamento della propria politica mediterranea, nella quale sarà richiesto un coinvolgimento più dinamico e creativo di quello attuale. In queste settimane la Farnesina è alla ricerca di una “grand strategy” che sia un fattore determinante di promozione del sistema paese in Libia e nell’intera area e un valido trait d’union con l’Ue, pur con le sempre più limitate risorse italiane. Nell’incertezza relativa alla stabilità della regione si devono instaurare legami solidi e di reciproca convenienza con gli attori emergenti, essenzialmente i partiti islamici moderati. L’Italia ha ottenuto il supporto per la creazione di un gruppo di lavoro euro-atlantico a livello di alti funzionari sulle Primavere arabe che si riunirà tra qualche giorno, un primo passo, ma certamente ancora poco per una ridefinizione della politica nell’area.

In Libia, ad esempio, l’Italia ha interesse a premere diplomaticamente per l’ampliamento dei poteri della UN Support Mission (Unsmil), una missione di institution building e protezione dei diritti umani, prendendo seriamente in considerazione se non sia necessario e se vi siano spazi diplomatici e politici per trasformarla in una “peacekeeping mission”, qualora la situazione del quadro interno degenerasse ulteriormente. L’Italia, con i partner europei (in tal senso un cambio di presidenza in Francia potrebbe contribuire a una distensione dei rapporti con Parigi sulla questione libica), ma soprattutto con un coinvolgimento attivo dei paesi arabi che hanno certamente maggior ascendente sulla popolazione libica, potrebbe porsi come capofila per una nuova e rinnovata convocazione del gruppo degli “amici della Libia” che periodicamente si era riunito durante la guerra civile, magari nella versione più ampia degli “amici del Mediterraneo”. Non c’è tempo da perdere.

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