Chi arriva a Tripoli in queste settimane percepisce chiaramente in poche ore che la capitale libica, e probabilmente buona parte del Paese, vive una nuova normalità fatta di caos e scarsa chiarezza su chi eserciti il monopolio della forza. Ne bastano poche altre per capire che delle milizie, che hanno vinto la guerra con il sostanzioso contributo fornito dagli alleati (americani, europei o arabi che siano), la Libia non se ne libererà presto.
Il governo centrale non ha la forza necessaria per disarmarle, ma neppure la volontà politica. Ha piuttosto puntato a una loro assimilazione, come storicamente avvenuto dopo situazioni simili. L’ipotesi teorica di uno scioglimento delle milizie e di un arruolamento dei singoli tuwwar (“rivoluzionari”) all’interno dell’esercito si è concretizzata in un più semplice cambio di casacca di parte delle milizie.
Tripoli vive, nonostante tutto, uno stato di apparente tranquillità. In realtà, a due anni dallo scoppio della rivolta, la Libia attraversa una complessa fase di transizione, destinata a perdurare certamente ancora molti mesi. Il governo centrale faticosamente cerca di evitare nuovi conflitti e intraprende la strada della riconciliazione nazionale. Dal punto di vista politico il primo ministro Ali Zeidan, una figura che è riuscita a imporsi come super-partes tra i personalismi e le rivalità emergenti nel panorama libico, e il suo governo, retto da una maggioranza trasversale che comprende il partito della Fratellanza musulmana e l’Alleanza di Mahmud Jibril, sembrano raccogliere il consenso di buona parte della popolazione e delle comunità locali. La Libia sembra lontana dal settarismo tipico di altri Paesi, come l’Iraq per esempio. Rimane il fatto che la Libia necessita una ricostruzione completa delle istituzioni. In queste settimane, l’Europa, con il solito passo lento, si appresta a rafforzare la collaborazione nel campo dell’institution building.
Tuttavia il governo è preso tra due fuochi. Da una parte vi sono le milizie che di fatto esercitano una sorta di ricatto nei suoi confronti: la continua richiesta di fondi e mezzi per svolgere al meglio gli incarichi assegnati (il controllo di aree, istituzioni e infrastrutture) a cui si aggiungono le più generali richieste, tendenzialmente accontentate, di sussidi e pensioni per gli ex-combattenti (il cui numero, come consueto a fine di ogni guerra civile è cresciuto a dismisura rispetto alla reale partecipazione).
Dall’altra ci sono le pressioni statunitensi. All’interno della galassia delle milizie vi sono certamente gruppi salafiti composti di elementi qeadisti, che hanno combattuto sul fronte afghano, iracheno e, ora, anche siriano. Non solamente Answar al-Sharia, la milizia a cui è stato addebitato l’attentato ai danni dell’ambasciatore statunitense Chris Stevens e di altri 3 americani a Bengasi l’11 settembre scorso, ma anche altre brigate che hanno dimostrato di agire indipendentemente ma di essere tra loro connesse e, soprattutto, di condividere la medesima visione (milizia Rafallah al-Sahati, brigata Abu Salim, ecc.). Alcuni gruppi radicali della Cirenaica sono certamente già entrati come unità a far parte delle forze di sicurezza libiche che il governo sta cercando di riorganizzare. Inoltre, tre campi di addestramento di miliziani poco graditi sono chiaramente stati identificati in Cirenaica e sarebbero un facile obiettivo dei droni Usa.
Per gli Stati Uniti non sembra sufficiente ciò che stanno compiendo i libici per trovare i responsabili dell’attentato. La mediazione tra le varie anime libiche è affidata ad Ali Sallabi, una figura molto vicina alla Fratellanza, ma rispettata da molte fazioni libiche, anche se accusato alternativamente di ambiguità per i legami con gli ex-gheddafiani o con i salafiti e i qatarini. Ali Zeidan ha visto ieri a Washington il Presidente Obama e il Segretario di Stato Kerry. Inizialmente non doveva incontrare Obama, ma ha fatto di tutto per vederlo e cercare di prendere tempo, per far capire che i tempi libici non coincidono con quelli statunitensi e che un intervento militare sarebbe peggio.
Alcuni segnali importanti di polarizzazione dello scenario politico sono sorti fin dall’estate scorsa. Gli elementi di maggior incognita sono costituiti dalla legge sull’esclusione da incarichi politici di chi ha avuto ruoli nel regime gheddafiano e dal processo che porterà alla stesura delle costituzione. Entrambe le questioni potrebbero condurre ad uno scontro politico tra i “liberali” e la Fratellanza. Così come delineata, la legge, in discussione nelle prossime settimane, escluderebbe chiunque avesse preso parte ad incarichi governativi o dirigenziali all’interno del regime dal 1969, in sostanza un’ipotesi di ampia “de-baathificazione” che avvantaggerebbe il partito dei Fratelli, getterebbe ombre sulla capacità di governare la macchina pubblica ed escluderebbe Jibril, ma anche l’ex presidente del Consiglio Nazionale transitorio Abdel Jalil o l’attuale presidente del Congresso Mohammed Magarief.
Il tema della Costituzione è ancora più complesso. Il punto sostanziale più importante è certamente quello legato alla disposizione della Sharia come principio fondante della legge in Libia. La discussione potrebbe vertere non tanto sull’imposizione della legge islamica, che viene ampiamente riconosciuta come fondamentale all’interno del Paese, ma su chi sarà preposto a decidere se una legge emanata dal Congresso sia in contraddittorietà con essa. Nella concezione dell’Islam è l’umma (la comunità) che è preposta a questo controllo. Nella pratica l’interpretazione del volere della comunità può venir delegata a figure religiose (come il gran Muftì, in questo caso Al-Ghariani, con una visione piuttosto conservatrice e vicina al salafismo), ad un comitato nominato composto da figure civili o a ipotesi miste.
Il partito della Fratellanza, “Giustizia e Costruzione”, in alleanza con una buona parte dei membri del Congresso indipendenti, ora parzialmente riunitisi, sembra orientato a posizionarsi come baricentro dello scenario politico, assumendo talvolta posizioni moderate e concilianti, talvolta dimostrando invece una certa contiguità di pensiero con le correnti salafite, per la maggior parte rimaste escluse da una rappresentanza in Congresso alle elezioni di luglio. Per ora i libici in questa fase di transizione, sembrano essersi affidati maggiormente alle élites politiche formatesi in esilio all’estero, ma miliziani ed islamisti già chiaramente stanno muovendosi per estrometterli.
Nel frattempo Zeidan forse ha convinto Obama che la Libia non è il Pakistan, ma solamente le prossime settimane ci potranno dire se la nuova “normalità” libica è accettabile per gli Stati Uniti.
*Research Fellow Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale)