Servono riforme alla Schumpeter per tornare a crescere

Bretton Woods 2 de facto. Le banche centrali stanno stimolando politiche espansive

Cosa succederebbe, nell’economia globalizzata, se tutti inondassero di liquidità i loro Paesi, come ha fatto la Banca Centrale giapponese del governatore Haruhiko Kuroda?

È una domanda retorica: in realtà, tutte le principali banche centrali stanno inondando di liquidità il rispettivo sistema economico e, con esso, l’economia globale. Lo ha fatto la Fed, a partire dal 2008, e non ha più smesso. Lo ha fatto la Bce, con interventi non convenzionali a favore delle banche, con l’attivismo sul mercato secondario dei titoli di stato; lo farà con le Omt. Lo ha fatto la Banca centrale giapponese; acquistando titoli di ogni genere, per un importo che, se non capisco male, si avvicina al 40% del Pil. Concentrazione nel tempo ed entità dell’intervento sono molto diverse, ma il senso della manovra è lo stesso.

Evidentemente, il nuovo premier e il nuovo governatore hanno ritenuto di dover fare di più e in minor tempo, perché avevano di fronte non l’esigenza di correggere, ma l’obiettivo di cambiare radicalmente la natura stessa della politica economica e monetaria seguita dal Paese nei lunghi anni della stagnazione e delle deflazione. Sembra dunque che il coordinamento delle politiche monetarie a livello globale si stia realizzando: non in via di diritto – con la tanto invocata nuova Bretton Woods – ma in via di fatto.

L’obiettivo comune è chiaro: tornare ad un buon ritmo di crescita. Per conseguirlo, stiamo operando una sorta di inversione dei ruoli tra inflazione e andamento della economica: normalmente, l’inflazione è il prodotto di una solida e crescente ripresa. Ora, si assume l’obiettivo di una più elevata inflazione e si vuole che esso sia raggiunto prima della ripresa, perché serve a generarla.

Può funzionare? Abbiamo già qualche prova del fatto che, nel breve periodo, può funzionare. Ed è un effetto di breve periodo che si proietta credibilmente nel medio, perché sembra in grado di modificare il sistema delle aspettative di tutti gli attori economici, rendendolo meno cupo.

Ma non è una strategia esente da rischi, anche molto seri: prima o poi, i tassi dovranno aumentare (il Cbo stima che quelli sui titoli decennali del tesoro Usa saranno attorno al 5% nel 2019). E, a quel punto, la ritirata da politiche monetarie ultraespansive – in assenza di coordinamento globale, del quale non stiamo creando i presupposti giuridici e politici – potrebbe somigliare pericolosamente alla fuga degli spettatori da un palazzo dello sport in fiamme.

Non solo: lo stimolo monetario può influenzare prima il livello di indebitamento delle imprese e le quotazioni finanziarie e solo dopo il livello dei beni e dei servizi, con gli effetti sull’economia reale che è facile immaginare: bolle speculative che scoppiano, trascinando con sé redditi e posti di lavoro.

È possibile scongiurare questi rischi, senza rinunciare ai vantaggi di queste politiche ultraespansive? Questa possibilità è legata alla contemporanea realizzazione di incisive riforme strutturali.

Sono le riforme più antipatiche a quelli che fanno il mio mestiere, perché possono costare subito molto – a chi le fa – sul piano elettorale; ed hanno un rendimento magari elevato, ma molto differito nel tempo.

Pensiamo alla politica dell’immigrazione, che ci può aiutare a fare i conti con la demografia. Pensiamo al peso del fisco e della burocrazia sui produttori, che può essere alleviato solo se si chiede di più a consumi e patrimoni e spendendo di meno per l’organizzazione degli apparati pubblici. Qualcosa di molto lontano da ciò che stiamo per fare in Italia: impiegare mezzo punto di Pil di minori entrate per alleviare imposte patrimoniali (Imu) e sui consumi (Iva). Inutile chiederci da dove vengano questi 8 mld: dalla fiscalità generale, quindi dal lavoro e dall’impresa.

Le riforme strutturali sono un po’ come la distruzione creatrice di Schumpeter: tutti convengono sul fatto che sia necessaria, per il lieto fine della vicenda economia. Ma tutti vorrebbero evitare la prima parte del film.

Su questo terreno si vede la differenza tra le leadership politiche popolari (che cercano le cause delle difficoltà, per rimuoverle con le riforme scommettendo su di una visione di lungo periodo) e le leadership politiche populiste, che cercano solo colpe e relativi colpevoli, per strumentalizzarli a fini di facile consenso.

Articolo originariamente pubblicato su Qdr http://www.qdrmagazine.it/2013/06/11/107_morando.aspx#sthash.HzhdkfqV.dpuf

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