Gli ultimi eventi in Medio Oriente sembrano evidenziare quanto l’amministrazione Obama sia in difficoltà nella comprensione delle vicende di quest’area. Ma ancor di più, dopo quasi cinque anni di presidenza, è realmente difficile capire la visione dell’amministrazione democratica in politica estera, anche per gli analisti più esperti. Non solo sembra mancare una “grand strategy” complessiva, una visione unificante del mondo che ci si aspetterebbe da quella che, nonostante tutto, è ancora la prima potenza mondiale, ma neppure sembra presente una chiara strategia di perseguimento dei propri interessi internazionali.
La storia (tutto sommato recente) dell’egemone statunitense ci aveva insegnato a valutare, volenti o nolenti, la politica estera americana sulla base di un binomio indissolubile: quello della stabilità/democrazia. La dottrina Truman subito dopo la fine della seconda guerra mondiale aveva introdotto un concetto inequivocabile: i due termini procedono di pari passo, perseguire l’una rinforza l’altra e viceversa. Il piano Marshall e il processo di integrazione europea erano segni inequivocabili del tentativo coerente di questa politica. Non che con il passare del tempo non emergessero contraddizioni – una delle più evidenti fu il colpo di stato favorito dagli Usa in Persia nel 1953 ai danni di Mohammad Mossadeq – ma ogni presidente aveva una visione e quella lente o chiave di lettura gli permetteva di avere una retorica conseguente.
Henry Kissinger ci ha poi reso evidente che della democrazia gli importava poco. Nella più classica visione realista ciò che veramente contava del binomio stabilità/democrazia era la prima. La necessità di chiudere la vicenda del Vietnam, aprire alla Cina in funzione anti-sovietica, conservare la leadership sull’America Latina, lo spinsero a privilegiare la prima a scapito della seconda, con risultati alterni, ma con una coerenza piuttosto evidente.
Con il 1989-91 il binomio torna in equivalenza. L’enfasi pro-democratica e pro-libero mercato di Bill Clinton, è il perfetto connubio tra l’esportazione di valori politici ed economici e la necessità di stabilizzare aree precedentemente sottoposte all’egemonia sovietica. Persino l’amministrazione di George W. Bush, che non sarà certamente ricordata come una presidenza molto felice in politica estera, aveva chiaro il rapporto tra i due fattori retorici. Perseguiva la democrazia fino anche a giustificare interventi armati contro i regimi non democratici, portando all’estremo la “teoria della pace democratica” secondo cui i regimi democratici non si muovono mai guerra tra di loro e, di conseguenza, un mondo di fatto di democrazie è il mondo più stabile possibile.
La conduzione della politica estera di Obama nell’area del Mediterraneo e del Medio Oriente in questi anni ha dimostrato invece che l’amministrazione democratica non ha mai voluto dare un valore univoco al binomio. Obama è partito con la “politica della mano tesa” (il tentativo abbozzato di appeasement con l’Iran, il discorso del Cairo, ecc…), facendo presumere che, viste le ridimensionate possibilità statunitensi, volesse tornare a una politica più realista e allo stesso tempo fare affidamento sul soft power. Le Primavere arabe lo hanno spiazzato: gli Usa hanno scoperto che esisteva una opinione pubblica di questi paesi che voleva la democrazia, pur probabilmente non comprendendone bene i significati.
L’amministrazione democratica si è improvvisamente scoperta “democratica” e ha abbandonato la vecchia “stabilità” dei regimi autocratici, ma non ha saputo adeguatamente accompagnare questa strategia. Il “double standard” determinato dal fatto di chiedere democrazia nel mondo arabo ed essere amici dei sauditi e dei paesi del Golfo che spingono questa transizione in un’altra direzione ha falsato tutto.
L’incoerenza è prontamente riemersa. La vittoria alle elezioni di formazioni politiche islamiche (non ancora completamente democratiche) ha permesso a Washington di stabilire una sorta di tacito accordo con i partiti della Fratellanza: gli Stati Uniti non avrebbero interferito in cambio di rassicurazioni contro una eccessiva “islamizzazione” del quadro politico, e a favore di una continuità dei rapporti con Israele. Ma è stata la piazza egiziana a rovesciare questo compromesso.
Il golpe dei militari egiziani, sul quale pare che gli Usa non abbiano avuto voce in capitolo, fa chiaramente percepire la debolezza statunitense nell’area rispetto al passato e il definitivo tracollo della politica del “leading from behind” (o si è al volante o non si guida!). L’incerta oscillazione tra perseguire la stabilità o la democrazia, fornisce l’impressione che gli Stati Uniti siano pronti a governare con chiunque sia al potere e finisce per indebolire le leve a disposizione degli Usa per perseguire proprio la stabilità (dalle pressioni politiche ai sostanziosi aiuti economici).
Si potrà sostenere che il vero elemento di novità di Obama in politica estera sia il “rebalancing” dall’Europa e dal Medio Oriente verso l’Asia-Pacifico, tuttavia la confusione concettuale su come perseguire la propria politica nelle aree di vecchio interesse ha certamente accresciuto nel sistema internazionale la percezione che il ripiegamento tattico desiderato sia in realtà una sorta di Anabasi disorganizzata e piena di insidie, per il Medio Oriente, gli Stati Uniti e l’Europa.