Una fonte delle Nazioni Unite pone il tema in questi termini: «La domanda non è se la conferenza di pace di Ginevra sulla Siria fallirà, ma come fallirà». Il modo sembra essere diventato palese con il passo falso diplomatico dell’invito a partecipare, poi ritirato, rivolto dal segretario Onu Ban Ki Moon alla Repubblica Islamica dell’Iran.
Alla conferenza, che comincia il 22 gennaio a Montreaux ma che entra nel vivo con gli incontri tra ribelli e governo siriano a partire dal 24 a Ginevra sono attese le delegazioni di quaranta Paesi. Con una mossa dell’ultima ora il segretario Onu aveva invitato, il 20 gennaio, l’Iran – e altri Stati – a prendere parte all’appuntamento diplomatico. Gli Stati Uniti pare che avessero dato il loro benestare. Quando la notizia si è diffusa, tuttavia, immediatamente si sono scatenate le reazioni contrarie, in primis dei ribelli siriani – che minacciavano di abbandonare il tavolo – e dell’Arabia Saudita. Poi si è appreso che l’Iran non era intenzionato a rispettare alcuna pre-condizione per partecipare al negoziato – in particolare la necessità di un governo di transizione, stabilita nella precedente conferenza di Ginevra del 2012, che implicitamente comporta la rimozione dal potere di Bashar al Assad – e a quel punto l’invito (specie su pressione americana) è stato ritirato.
«La mancata accettazione delle pre-condizioni da parte dell’Iran è stata usata come pretesto dagli Stati Uniti per giustificare la propria marcia indietro», spiega Pejman Abdolmohammadi, docente di storia e istituzioni dei Paesi islamici. «Con questa vicenda si palesa ancora una volta la fragilità e l’ambiguità della politica estera americana in Medio Oriente. Da un lato è stata evidentemente sottovalutata la reazione dei ribelli siriani di fronte all’invito all’Iran, e anche quella dell’Arabia Saudita, partner strategico degli Usa nella regione. Dall’altro gli Stati Uniti non hanno avuto la forza di imporre la partecipazione della Repubblica Islamica al negoziato». La situazione che si è creata di sicuro non dispiace a Teheran che da un lato vede riconosciuta l’importanza del suo ruolo, anche se poi l’invito a Ginevra è sfumato, dall’altro riesce a far litigare i propri nemici tra di loro. La mancata partecipazione alla conferenza di pace non sembra un problema per la teocrazia islamica, anzi, se – come molti analisti sostengono – gli sforzi diplomatici dovessero concludersi in un nulla di fatto, questo darebbe ancor più peso in futuro all’Iran come giocatore della partita siriana.
Secondo alcune ricostruzioni, l’Iran aveva accettato per bocca di Zarif, titolare degli Esteri di Teheran e volto dialogante del regime, le pre-condizioni, ma il ministro sarebbe stato costretto a una marcia indietro a causa della contrarietà dei “falchi” a cedere sulla permanenza al potere di Assad. Quanto c’è di vero?
Lo scontro tra falchi e colombe è solo un gioco delle parti. Zarif non è stato vittima di un complotto di altri membri della Repubblica Islamica. Se l’Iran ha dichiarato che non avrebbe partecipato in presenza di pre-condizioni questa è probabilmente una posizione unitaria interna ai vari gruppi che compongono il cuore della teocrazia. Per Teheran Assad è un partner irrinunciabile per ora, e nessuno – tantomeno Zarif – è disposto a sacrificarlo. Aver dato l’impressione che i falchi abbiano costretto le colombe a una retromarcia è in realtà un modo astuto per salvaguardare il volto dialogante della teocrazia, incarnato appunto da Zarif e da Rohani.
Molti esperti concordano sul fatto che gli Stati Uniti sono sinceri nel loro tentativo di inaugurare una nuova stagione di rapporti con l’Iran. In generale sembra che Washington voglia riequilibrare la situazione nell’area mediorientale – anche a fronte di un crescente disimpegno – dando maggior credito all’asse sciita, in particolare all’Iran e al nuovo corso rappresentato da Rohani. E in questo scenario la Siria sarebbe sacrificabile sull’altare di una pacificazione con l’Iran…
Gli Stati Uniti hanno sicuramente capito che gli conviene avere un rapporto più stretto con l’Iran in vista delle possibili evoluzioni dello scenario regionale, ma con l’Iran in quanto Nazione, non in quanto teocrazia islamica. Tuttavia per ottenere questo risultato hanno usato la via più comoda, cioè quella di assecondare la forma di potere esistente – la Repubblica Islamica – dando credito al suo “volto sorridente”, rappresentato dal nuovo presidente Rohani. Questa scelta dimostra la pochezza della strategia estera della Casa Bianca nei confronti dell’Iran. La Repubblica Islamica si sta dimostrando troppo fragile da un punto di vista della legittimazione politica interna per poter condurre un negoziato reale con gli Stati Uniti. Il tentativo in corso penso sia destinato al fallimento, con l’unico effetto di allungare la vita alla teocrazia.
In questo caso aver rinunciato, almeno momentaneamente, a indurre un cambio di regime sarebbe stato un errore, e inoltre si proietta un’ombra di scetticismo sugli esiti della trattativa sul nucleare (che pure sta vedendo dei progressi in questa prima fase). Ma per quanto riguarda la Siria, che conseguenze sono prevedibili?
L’Iran è determinante nel sostegno ad Assad, anche tramite l’Hezbollah libanese. Senza un suo coinvolgimento al tavolo delle trattative difficilmente si otterrà un qualche risultato concreto. E qui sta il problema: non è possibile prescindere da Teheran per risolvere il caos siriano, ma non è un interlocutore sufficientemente affidabile e gli Stati Uniti non sono abbastanza determinati per imporre agli altri attori regionali la sua presenza al tavolo delle trattative.
Che esito ci si può aspettare allora da Ginevra 2?
Io credo che non verrà raggiunto alcun accordo significativo. Al massimo verrà fatto qualche passo simbolico, ma non vedo i presupposti per una reale soluzione della questione siriana. I rappresentanti politici dei ribelli non sono in grado di controllare i gruppi armati di insorti e, come detto, senza Iran al tavolo non si fanno i conti con il maggiore sostenitore del regime di Damasco.