L’Italia, il design e Paola Antonelli

Milano Design Week

Paola Antonelli è arrivata al MoMA, uno dei più importanti musei del mondo, nel 1994. Aveva 31 anni. Ha iniziato la sua carriera lì semplicemente rispondendo a un annuncio di lavoro e poi non se ne è più andata, arrivando fino a diventare la curatrice del dipartimento di design e architettura del museo. Le sue acquisizioni e le mostre da lei curate stanno portando sempre di più il museo a esplorare ogni campo del design e non solo quello, che noi spesso associamo alla parola, degli oggetti o dell’arredamento. Nel 2012, ad esempio, il MoMA ha acquisito 12 videogiochi come esempi di design applicato e di recente ha lanciato una mostra solo online dedicata al rapporto tra design e violenza, che parte dalle pistole create con stampanti 3D e arriva a un progetto che ridisegna i denti umani per un futuro senza carne.

Nei prossimi giorni, Paola sarà a Milano per seguire la Milano Design Week, uno dei più importanti eventi dedicato al design nel mondo, e per tenere una conferenza a Meet the Media Guru, un ciclo di incontri con i protagonisti internazionali della cultura digitale e dell’innovazione, ideato da Maria Grazia Mattei e realizzato dalla Camera di Commercio di Milano. La conferenza di Paola sarà intitolata Il cambiamento possibile di musei e beni culturali: sostenibilità e innovazione come punti di forza e sarà possibile seguirla dal vivo, gratis, giovedì 10 aprile alle 19.30 a Palazzo Reale, a Milano (serve registrarsi sul sito) oppure in diretta streaming. Noi, intanto, ci abbiamo fatto quattro chiacchiere.

L’intervista è stata leggermente ridotta ed editata.

Se io ti dico che l’Italia è la patria del design, ci credi ancora?
No, non ci credo più. Non ci credo più perché la geografia del design è cambiata enormemente. Una volta il design veniva collocato geograficamente a seconda di dove erano gli impianti di produzione, per cui quando il design era industriale, era legato alle industrie. E in quel momento, certo, il design era italiano. I designer erano tutti italiani, i produttori erano tutti italiani ed erano localizzati vicino agli impianti. Poi le cose sono cambiate, i produttori italiani hanno iniziato a commissionare parte della produzione in altre parti d’Italia o all’estero, e i designer di tutto il mondo hanno iniziato a farsi produrre in Italia. E ultimamente c’è ancora più dispersione.

Trovo che la geografia del design adesso sia dettata dalle scuole e non più dai produttori o dagli impianti di produzione. In un certo senso adesso le patrie del design sono l’Inghilterra, sono l’Olanda o la Svizzera, dove ci sono le scuole più interessanti. In Italia c’è ancora una grande comunicazione del design, che però è molto incentrata sul design fisico, industriale e del mobile. E non ci si rende abbastanza conto del fatto che c’è un design digitale e immateriale che è molto importante nel mondo e per cui ci sono degli italiani molto bravi ma non vengono valorizzati. Io spero che a un certo punto il Salone del Mobile diventi un salone del design e che quindi abbracci anche il design immateriale.

È un problema anche di istruzione? Il Politecnico di Milano, ad esempio, è ancora una grande scuola di design ma forse non insegna più il tipo design che funziona nel mondo adesso. 
Non bisogna pensare che sia una questione italiana. Questo problema esiste in molte parti del mondo. Anche in Giappone non hanno capito che c’è un design immateriale che potrebbe essere comunicato insieme a quello materiale, e degli Stati Uniti non parliamone nemmeno. In Olanda — anche se è talmente piccola che sembra che tutto quanto sia unitario e anche se ci sono fondazioni che raggruppano design, architettura, moda e arte — le scuole sono separate. Le città sono separate. Ad Amsterdam c’è design grafico, a Rotterdam c’è l’architettura, a Eindhoven c’è il design… è molto buffo. Non è naturale raggruppare tutti questi vari tipi di design sotto un unico cappello, ci stiamo arrivando soltanto adesso. Il design di mobili in Italia è stato così potente in passato che è comprensibile che ci sia ancora una specie di deformazione professionale nel considerarlo il design. Ed è ancora ottimo, i produttori di mobili italiani, di illuminazione, di cucine sono sempre ottimi. Il problema è che il mondo si sta spostando dall’idea di possedere oggetti a un’idea di condividere, di utilizzare di meno, di sprecare meno risorse. Sarebbe importante riuscire a slegarsi dal mondo materiale e provare a entrare nel mondo dei servizi.

C’è un altro movimento che si sta innestando in questa complessa situazione. Esattamente come fotografia e cinema prima di lui, il design sta diventando democratico. Grazie alla tecnologia, penso alle stampanti 3D e ad Arduino, chiunque può essere designer. 
Chiunque può fare design, non chiunque può essere un designer. Come per i film, chiunque può fare un film ma non tutti sono registi e non tutti lo sanno fare bene. Penso che ci sia sempre una differenza di qualità tra qualcuno che passa anni a cercare di avere un educazione come designer e invece chi ci si improvvisa. È una meraviglia che tutti possano cercare di fare e che tutti abbiano voglia di fare, come è una meraviglia per quanto riguarda il cinema e la musica. Quello che persone come me fanno è di continuare a bombardare il proprio pubblico con esempi di entusiasmo democratico e con esempi di grande raffinatezza intellettuale che vengono dal fatto di avere un’educazione alle spalle.

Per te e per il MoMA questa tendenza vuol dire essere più inclusivi o più selettivi?
Noi continuiamo a essere selettivi. La cosa interessante della collezione di design del MoMA è che noi non collezioniamo designer, collezioniamo oggetti. Ci sono, ovviamente, designer che ha più oggetti nella collezione ma abbiamo anche oggetti che non hanno nomi, non sappiamo chi li ha disegnati. E noi ci guardiamo in giro dappertutto. Se qualcuno fa qualcosa di bello e ha 15 anni e non ha nome, noi lo acquisiamo lo stesso. Non è una questione di aristocrazia, è una questione di qualità degli oggetti.

In alcune delle esposizioni che hai curato, hai inserito degli oggetti che sembrano più stare dalla parte dell’arte contemporanea che dalla parte del design, penso ad esempio alla menstruation machine di Sputniko! C’è un confine tra design e arte o è uno spazio fluido in cui le cose si mescolano?
È uno spazio molto fluido e non è nemmeno la prima volta nella storia che è così. La ragione per cui ci sono questi oggetti che sembrano quasi arte viene dall’importanza che viene data al design critico in questo momento. In un certo senso questa è una forma di design che non si esprime facendo degli oggetti che sono immediatamente fruibili o che sembrano pratici, ma che invece si esprime creando oggetti che diventano una critica a conseguenze future delle nostre scelte d’oggi. La menstruation machine è molto bella perché, a mio avviso, rappresenta un’ultima barriera di incomprensione tra due dei molti sessi che esistono in questo momento, o tra un sesso e i molti altri. Rende possibile l’esperienza di una mestruazione completa a uomini etereosessuali, uomini omosessuali o magari anche transessuali che non hanno completato il processo. È un metodo di comunicazione.Questo design critico è comparso altre volte nella storia. Alla fine degli anni Sessanta o all’inizio dei Settanta, ad esempio, c’erano moltissimi architetti — da Archigram agli italiani di Superstudio — che creavano questi scenari, sempre a base di architetture immaginarie o oggetti, che facevano delle ipotesi. Non erano mai fantascienza completa ma rispondevano alla domanda: «cosa succederebbe se?». Per me il design critico è molto importante.

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Per quanto riguarda la differenza tra arte e design, non è più una differenza di metodi o di espressione. I designer usano video, usano modelli, come pure gli artisti a volte fanno architettura o oggetti. La differenza sta nell’intenzione della persona che fa il progetto. Se qualcuno viene da me e mi dice: «sono un artista», gli dico «okay, ciao». Se invece qualcuno mi presenta qualcosa come design, allora io lo giudico come design. Ma sono criteri diversi. E poi c’è un mercato diverso ma quella è un’altra situazione. Per fortuna io non mi occupo del mercato dell’arte, a volte non so come facciano i miei colleghi. Per me il rapporto valore / prezzo, per me ha a che fare con la realtà, invece nell’arte non ha più a che fare con la realtà.

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