Banche popolari, così finisce un’era

Banche popolari, così finisce un’era

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Il Governo sembra intenzionato ad abolire il voto capitario nelle banche popolari. Sarebbe una vera svolta, soprattutto se dovesse riguardare solo quelle sopra una certa dimensione. Il voto per azione migliorerebbe il governo societario e accrescerebbe il grado di concorrenza nel mercato bancario.

VOTO CAPITARIO E CONTROLLO
Facendo seguito alle anticipazioni dei giorni scorsi, il consiglio dei ministri ha dato il via libera a una iniziativa che se va a buon fine può avere conseguenze rilevanti per la governance di una parte importante delle banche italiane, migliorare il governo societario e accrescere il grado di concorrenza nel mercato bancario.

Si tratta dell’abolizione del voto capitario nelle banche popolari. Ovvero, della regola vigente per questa tipologia di banche per la quale il diritto di voto degli azionisti (soci) è indipendente dal numero di azioni (quote) detenute. Ogni socio ha diritto a un voto in assemblea, anche se possiede la metà del capitale.

Quale è il problema di un simile assetto di governo? Principalmente la difficoltà del passaggio di mano del controllo. In una società per azioni, è sufficiente comprare i titoli sul mercato per scalzare un gruppo di controllo. L’aspettativa è che chi è disposto a pagare in proprio per comprare azioni per assumere il controllo ha un fondato motivo per ritenere di poter gestire la società meglio di quanto non faccia il management in carica, sorretto da chi oggi esercita il controllo. Il voto per azione garantisce che questo passaggio possa avvenire, e quindi che si possa conseguire il guadagno di efficienza che un management superiore comporta. I potenziali guadagni possono essere notevoli e quindi sono altrettanto grandi le perdite se il meccanismo di riallocazione del controllo funziona male.

Nelle banche popolari (e in genere nelle società cooperative) il cambio di controllo richiede che qualcuno metta d’accordo la metà più uno dei soci per scalzare la gestione corrente, se questa funziona male. Non è difficile capire i limiti del meccanismo. Se un socio o un gruppo di soci sono insoddisfatti della gestione del gruppo dirigente, per estrometterlo devono prima riuscire a convincere della loro analisi la maggioranza dei soci e poi a portarne in assemblea un numero sufficiente.

È ragionevole assumere che questa capacità di mobilizzazione e di coordinamento esista se si tratta di piccole cooperative, dove bastano poche telefonate per spiegare le cose e convincere altri soci a partecipare a una azione collettiva contro la dirigenza in carica. Ma per cooperative con migliaia e migliaia di soci, come accade ad esempio nelle grosse banche popolari (la Popolare dell’Emilia ne ha 90mila, per dire), chi mai tra i singoli soci sarà disposto a spendere il proprio tempo (e i propri denari) per radunare altri soci nella speranza di raggiungere una maggioranza che consenta di estromettere il management? Il beneficio, in termini di maggior efficienza della banca, va a tutti i soci, mentre il costo di coordinazione del dissenso pesa solo sul coordinatore. Inoltre, la capacità di mobilizzazione del gruppo che esercita il controllo è molto maggiore di quella di qualunque socio, rendendo arduo qualsiasi piano per estromettere il vertice. Le vicende della Popolare di Milano sono emblematiche, da questo punto di vista.

*Luigi Guiso è professore di Economia all’EInaudi Institute for Economics and Finance, Roma, dopo essere stato profesore allo European University Institute, Firenze. È fellow del CEPR e è stato direttore del Finance Program. Gli interessi correnti di studio e di ricerca vertono sui campi dell’economia finanziaria, delle scelte finanziarie delle famiglie, della macroeconomia, dei legami tra economia e istituzioni. Temi recenti di ricerca includono l’effetto della cultura sull’economia e le origini del capitale sociale. Redattore de Lavoce.info fin dall’inizio. 

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