I partigiani dimenticati da Togliatti e dal Pci, morti nei manicomi

I partigiani dimenticati da Togliatti e dal Pci, morti nei manicomi

La ricorrenza del settantesimo anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo ha sollecitato – come spesso accade in simili occasioni – l’impegno di studiosi e case editrici. Sono così arrivati all’attenzione del pubblico dei lettori numerose pubblicazioni e studi che arricchiscono il già rilevante panorama della storiografia e della memorialistica sulla Resistenza. Tra questi merita un attenzione particolare il lavoro di Mimmo Franzinelli (studioso del fascismo e dell’Italia repubblicana) e di Nicola Graziano (magistrato presso il Tribunale di Napoli) che hanno indirizzato le loro ricerche su di un capitolo oscuro di quegli anni: quello dei partigiani, o sarebbe meglio dire ex partigiani, perfettamente sani, che a guerra finita furono condannati a trascorrere lunghi periodi di detenzione nei manicomi criminali.

Nel libro di Franzinelli e Graziano, Un’odissea partigiana.   (Feltrinelli, pp. 222, euro 18,00), grazie al prezioso lavoro di analisi di documenti inediti provenienti dall’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa, in provincia di Caserta, sono state ricostruite le vicende processuali e personali di partigiani arrestati e condannati nel secondo dopoguerra per episodi commessi nella lotta clandestina oppure immediatamente successivi alla cessazione dei combattimenti. È stata così riportata alla luce la loro disperazione e la loro rabbia per le numerose ingiustizie subite da uno Stato e una magistratura che paiono aver già dimenticato il contributo e il ruolo della Resistenza, mentre ben diversa attenzione e cautela viene usata nei confronti dei fascisti e della burocrazia del regime mussoliniano.

Stiamo parlando per lo più di casi di “giustizia sommaria” contro persone sospettate di collaborazionismo, di spionaggio e comunque ostili al movimento partigiano. La via d’uscita del riconoscimento da parte dei giudici della semi infermità mentale – a onor del vero – fu usata in più di un processo dalle stesse difese degli imputati, con l’obiettivo di mitigare la pena ed evitare loro l’umiliazione del carcere. Quando, però, nell’estate del 1946, facendo prevalere le esigenze della pacificazione nazionale, fu approvata la famosa amnistia Togliatti, tra i benefici del provvedimento non sarà ricompresa anche la detenzione manicomiale, con il risultato che alla stragrande maggioranza dei fascisti – giudicati colpevoli di gravissimi reati, torture e omicidi compresi – si spalancheranno le porte dei penitenziari, mentre gli ex partigiani, internati negli ospedali psichiatrici nonostante fossero perfettamente sani, dovranno adattarsi a vivere una triste e alienate quotidianità in strutture con un ordinamento e un regime di detenzione riservato ai malati di mente, in anni in cui non vi era certo nell’opinione pubblica una particolare sensibilità e attenzione verso questi soggetti.

I dati sull’applicazione dell’amnistia Togliatti, peraltro, sono più eloquenti di tante riflessioni sull’incapacità della neonata Repubblica di fare giustizia: a otto giorni dall’emanazione della legge, avevano fruito dei benefici 7.106 fascisti e solamente 153 partigiani. Il libro, dunque, racconta nei particolari e con il supporto documentale di lettere e fotografie l’odissea di alcuni di questi “pazzi per la libertà” finiti loro malgrado del manicomio di Aversa. Sullo sfondo i mesi “bollenti” a cavallo del 25 aprile, in cui – come scrivono gli autori – in molti giovani “ribelli” cresce l’indifferenza verso gattopardismi e restaurazione, a cui viene data da alcuni una risposta estremista e giustizialista. In questa opera di demolizione delle spinte di cambiamento e di discontinuità, ha un posto di primo piano la Corte di Cassazione e finisce così per prevalere una visione autocratica e conservatrice di magistrati, formatisi culturalmente e professionalmente nel regime fascista e che vivevano, inevitabilmente, i partigiani come un corpo estraneo, da espellere il più velocemente possibile dal tessuto istituzionale e politico nazionale.

Odissea partigiana e’ anche la storia di una rete di solidarietà che vede tra i suoi principali protagonisti il giovane attivista comunista di Aversa, Angelo Jacazzi, i Comitati di Solidarieta’ democratica e una squadra di avvocati di sinistra, capitanati dal Presidente dell’Assemblea Costituente, il comunista Umberto Terracini e dal leader socialista Lelio Basso. Sono racconti di ordinaria ingiustizia e di rabbia, in cui ai partigiani, a differenza dei fascisti, non sono riconosciute per le loro azioni le motivazioni di guerra – rientranti nell’amnistia – e i loro atti sono degradati a violenza e delinquenza comuni, con l’aggravante della predeterminazione. Umberto Terracini e’, così, costretto nel 1953 a denunciare nelle aule parlamentari che “ancora oggi, a otto anni di distanza dalla fine della guerra partigiana, a otto anni dalla liberazione di una Repubblica che si vuole assisa sul diritto che liberazione e guerra partigiana riscattarono, oggi ancora si arrestano e si processano dei partigiani, riesumando a pretesto eventi che si erano cancellati dalla memoria della gente ma che vengono rinverditi allo scopo evidente di svalutare la guerra di liberazione”. 

Una repressione giudiziaria e poliziesca che decrescerà solamente dopo le elezioni politiche del giugno ’53, il fallimento nelle urne di quella che le sinistre avevano ribattezzato “legge truffa”. Storie di donne e di uomini che era giusto riportare all’onore della grande storia, anche per aiutare una più completa riflessione sulla complessità e contraddittorietà della nascita della Repubblica e della mancata discontinuità con l’impianto burocratico-statuale del fascismo.

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