Paolo Villaggio: «Altro che accoglienza, siamo il Paese dell’apparenza»

L’intervista

«Papa Francesco è un uomo buono, ma dovrebbe fare di più per i migranti. In Vaticano ci sarebbe spazio per almeno 30mila di loro». A parlare è Paolo Villaggio, insieme con Totò e Alberto Sordi il più grande genio comico italiano. E non solo. Risponde a tono, si racconta, lo fa attraverso i ricordi (dalla genesi di Fantozzi all’amicizia con Fabrizio De André), e volge uno sguardo ai senzadio accampati tra Francia e Italia («Forse stanno meglio sugli scogli che a casa loro») ed ai giovani d’oggi malati di incomunicabilità («Parlano un linguaggio cifrato, ma sono molto più creativi rispetto a quelli di 50 anni fa»). Intanto, da ottobre sarà in tournée nei teatri italiani con La guerra di Paolo (regia di Pino Strabioli), buona occasione per ‘recitare’ l’amico De André.

Paolo, come mai questa tournée?

Non lo faccio per soldi, lo faccio per me. Recitare, stare davanti a un pubblico, ti dà la sensazione di essere vivo. Non sono l’unico esempio, pensa a Franca Valeri, Paolo Poli, lo stesso Dario Fo. E aspettarti ora che ti dica “torno sul palco per insegnare qualcosa ai giovani”, sarebbe la classica retorica.

Fantozzi compie 40 anni, mentre 90 sono quelli della famigerata Corazzata Potemkin

All’epoca nessuno sapeva cosa fosse La Corazzata Potemkin. Era una pellicola straordinaria, se inserita in quel contesto storico, ma oggi chiunque farebbe fatica a comprenderla e ad apprezzarla. A me, ad esempio, Stanlio & Ollio fanno ancora tanto ridere, ma il cinema è profondamente cambiato, è impossibile fare paragoni.

È per dare voce (e volto) agli esclusi e ai vinti che ha creato il personaggio di Fantozzi?

Chiariamo, è abbastanza casuale inventarsi un personaggio. Non stai lì a pensarci giorni o mesi. Avevo davanti agli occhi l’immagine dell’italiano medio scoraggiato, quello che di fronte al “Piove governo ladro” rimaneva immobile, perché assai pigro. Fantozzi era schiavo dei gruppi di potere, di quelli che possono decidere le sorti di una carriera. E la sua rassegnazione è la stessa che hanno i ragazzi del 2015.

Regista di Fantozzi è stato Luciano Salce: dimenticato troppo in fretta, non crede?

Luciano è stato una delle persone più intelligenti che io abbia mai conosciuto. Era colto, riservato, geniale, istrionico. Era anche un grande amico di Vittorio Gassman, nonostante questi, a un certo punto, gli portò via la moglie. Si creò una frattura tra i due, fortuna che qualche anno dopo pensai di organizzare una crociera tutti insieme, invitando anche Ugo Tognazzi e Adolfo Celi. Arrivò la pace, di questa cosa sono ancora oggi molto felice.

Dunque, Fantozzi era il vinto, l’escluso. Lei, ne Il Belpaese, ha portato sul grande schermo il fenomeno dell’emigrazione e del ritorno in patria. Facciamo un parallelo con quello che accade oggi?

Il Belpaese esasperava al massimo una paura collettiva, qualcosa che credevamo potesse riguardare solo le grandi città e che, invece, si è esteso anche in provincia. Ormai tutto il territorio italiano è un covo di zingari, di delinquenti, di sfaccendati. Oggi un film come quello non avrebbe molto senso.

De André ha cantato gli emarginati, gli esclusi, le puttane. Cosa farebbe lui a Ventimiglia, in mezzo a quei migranti senza destino?

Bisognerebbe chiederglielo. I protagonisti delle sue canzoni erano coloro che meritavano compassione, erano una minoranza considerevole che stava nell’ombra. Oggi i numeri sono diversi, vediamo gente in fuga dalla guerra, dalla fame. Vengono qui in cerca di fortuna, ma problemi come questi non si risolvono in pochi mesi.

Eppure l’Italia fa tanto, è il Paese dell’accoglienza. O no?

È il paese dell’apparenza. Siamo un popolo egoista, questa è la verità. Noi fingiamo di essere generosi, noi come gli americani e gli inglesi. L’Europa finge di essere unita, questo è l’esempio lampante. Fare volontariato, portare l’acqua minerale, non basta: è un modo per coltivare la propria vanità. Il Papa continua a ripetere: “Bisogna avere pietà!”, io credo che in Vaticano ci sarebbe spazio per almeno 30mila persone. Lui è buono, è moderno, ma potrebbe fare molto di più. Sono colpito dalle immagini di questi giorni, vedo poveri diavoli buttati sugli scogli… Forse stanno meglio lì, che a casa loro.

Gabriel Garcia Marquez diceva: “Nessuno ha il diritto di guardare un uomo dall’alto in basso, se non per aiutarlo ad alzarsi”. Faber, in un certo senso, cantava i suoi stessi pensieri…

Sì, ma non solo. Fabrizio aveva tutte le voglie del mondo. Era vanitoso, invidioso, ansioso di non farcela, di non riuscire a concretizzare il suo grande sogno. Era anche imprigionato da una timidezza incredibile, questo di certo non lo aiutava. Il successo arrivò dopo circa dieci anni di attesa. Ricordo che Marco Ferreri e io lo portammo alla Bussola: Fabrizio arrivò lì in tono dimesso, quasi scocciato. Aveva la sua chitarrina sottobraccio, ma ci disse subito: “Non mi rompete i coglioni, io non mi esibisco”. Alla fine della fiera dovevamo chiamare la polizia perché lo facesse smettere di cantare! Sa che le dico? Dopotutto, noi italiani borghesi eravamo tutti uguali, avevamo sete di fama. La differenza tra noi due è che lui ha vissuto troppo poco per godersi il suo successo, quello vero.

La musica d’autore ha oggi difficoltà a sopravvivere. Colpa anche di certi programmi televisivi che non guardano ai cantautori emergenti. Nasceranno nuovi De André, poeti popolari in grado di influenzare le coscienze?

Non sono un profeta, ma ho la sensazione che adesso ci sia troppa concorrenza. Se apro la finestra, vedo una miriade di creatori di musica superiore… (pausa) Vedo attori italiani molto giovani, eppure bravissimi, tecnicamente perfetti. Nei vecchi film italiani c’erano quattro comici straordinari, ma la verità è che all’epoca non avevano concorrenza. Oggi tutti noi avremmo maggiore difficoltà ad emergere. E lei non farebbe quest’intervista.

Lei è stato paroliere di De André, ma solo per due brani (Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers e Il Fannullone, ndR). Parliamone.

Eravamo giovanissimi, io ero un inguaribile appassionato di storia, oggi in tv guardo solo i canali di storia. E quelli sugli animali pericolosi. Una sera, era il 1962, ci ritrovammo insieme. Una sera come tante altre a Genova. Lui aveva in braccio la sua chitarrina, d’un tratto iniziò ad accennare qualche nota… Fu così che io, grande conoscitore di Poitiers, scrissi il testo di Carlo Martello. A Fabrizio non interessava la storia, lui era per la musica. E per la poesia.

Credo che quello di Carlo Martello sia ancora un personaggio molto attuale. Il cialtrone che fugge con la coda (del cavallo) tra le gambe…

Si può dire, certo. La differenza la fanno le donne: ormai hanno conquistato la libertà, possono fare tutto quello che fanno gli uomini. All’epoca quelle che uscivano di casa erano due su tremila, solo per questo venivano considerate puttane.

A questo punto mi deve dire qual è la sua canzone preferita di De André

“La canzone dell’amore perduto”, a mio avviso una delle pagine più belle della musica italiana.

…e a proposito della scuola genovese che mi dice? Era amante dei vari Endrigo, Lauzi, Tenco?

Sarei un pazzo se dicessi che non fossero bravi, ma nessuno di loro aveva la creatività di Fabrizio. Non erano alla sua altezza. Probabilmente perché lui (come me, del resto) era di origine borghese e questo gli permise di vivere a stretto contatto con l’intellighenzia del tempo. Di cogliere l’essenza dei benpensanti e quella degli emarginati.

Chiudiamo con i giovani. Lei non è il classico artista che sta in casa a creare, passeggia, va al bar, vede tanti ragazzi, molti dei quali la fermano per un saluto. Che idea si è fatto delle nuove generazioni?

Vedo una elevata creatività, pari all’incomunicabilità. Ormai i giovani parlano un linguaggio cifrato, Facebook ha annullato le conversazione di un tempo, anche l’approccio verbale con l’altro sesso. Fabrizio ed io ci ritrovavamo sul muretto a parlare di Kafka: si facevano anche le due di notte, poteva anche essere un modo per chiacchierare con le ragazze. I ragazzi di oggi non amano conversare, addirittura usano la musica come pretesto per stare in silenzio. Non comunicano con le parole, ma con i simboli: orecchini, acconciature da calciatori, tatuaggi. Ricordo che al funerale di De André era pieno di giovani, non so che fine abbiano fatto. Spero siano ancora vivi e, magari, che abbiano la sua stessa sensibilità. E una chitarrina sottobraccio.