Giustizia sociale, la grande assente dalle riforme di Renzi

Sottoposte al vaglio dell’analisi sulle famiglie italiane di Banca d’Italia, le misure finora adottate dal governo per alleviare la povertà e far ripartire i consumi dimostrano di non essere adeguate, e nemmeno l’abolizione della Tasi riesce ad avere effetti di equità

L’indagine sui bilanci delle famiglie italiane 2014, recentemente pubblicata dalla Banca d’Italia, consente di sottoporre a un’utile verifica alcune delle misure messe in campo dal Governo per alleviare le difficoltà prodotte dalla crisi e far ripartire i consumi interni.

In un quadro che vede il reddito familiare netto medio attestarsi a circa 30.500 euro annui, con un arresto tra il 2012 e il 2014 del trend di diminuzione che proseguiva dal 2008, si segnala un ulteriore crescita degli individui in una condizione di basso reddito: 22,3% nel 2014, mentre erano il 19,6% nel 2008 e il 20,6% nel 2012.

Interessante è certamente l’analisi elaborata da Banca d’Italia sugli effetti del bonus fiscale degli 80 euro, introdotto nel 2014 e destinato ai lavoratori dipendenti con un reddito complessivo compreso tra circa 8.100 e 26.000 euro. L’intervento di sostegno al reddito è stato ricevuto (in media 86 euro mensili nel periodo giugno-dicembre) da poco più di un quinto delle famiglie italiane (5,4 milioni pari al 21,9%). La quota di famiglie che ne hanno beneficiato è più alta al Nord (25%) e tra quelle in cui il capofamiglia ha meno di 45 anni (38%) oppure è nato all’estero (33%).

Con la Legge di Stabilità il governo ha deciso di abolire la tassa sulla prima casa. Ma emerge il rischio assai elevato che anche questo provvedimento finisca per essere significativamente iniquo

Sotto il profilo dell’iniezione ai consumi, il risultato atteso dal Governo appare raggiunto perché, mediamente, le famiglie intervistate dichiarano di aver speso (sempre in media) il 90% del bonus, anche se analisi quantitative sui consumi – sempre di Banca d’Italia – segnalano un impatto sulla spesa minore, attorno al 50/60%.

Al contrario, invece, la scelta compiuta di privilegiare la percezione individuale, senza alcuna relazione al reddito familiare complessivo, ha prodotto effetti distorsivi sui cui varrebbe la pena riflettere maggiormente, dal momento che a regime, nel 2015, questo intervento costerà circa 10 miliardi di euro alle casse dello Stato.

Suddividendo la popolazione in base al reddito equivalente, infatti, si scopre che le famiglie del quinto più basso (circa 9.000 euro annui), che sono circa il 13% del totale, hanno beneficiato di poco meno del 10% dell’importo complessivo distribuito con il bonus, mentre nel quinto più alto (superiore a 25.000 euro annui pari al 40% delle famiglie italiane) ne hanno beneficiato circa il 17% delle famiglie che hanno ricevuto il 17% del totale del bonus.

Con la legge di stabilità 2016, poi, il Governo ha deciso di abolire la tassazione sulla prima casa (ad eccezione delle abitazioni di extra lusso e i castelli). Una misura che, come noto, ha suscitato non poche critiche in relazione alla scelta di non applicare all’imposta alcuna progressività e di non prendere in alcuna considerazione il valore dell’immobile.

Sempre analizzando i dati della ricordata indagine di Banca d’Italia, emerge il rischio assai elevato che anche questo provvedimento finisca per essere significativamente iniquo. Per intanto, occorre sottolineare che la quota delle famiglie che vivono in casa di proprietà risulta essere pari al 67,7%, maggiore della media europea, ma lontana dall’80% e oltre che ogni tanto capita di ascoltare o leggere.

Sotto il profilo del consumo gli effetti appaiono raggiunti ma le analisi quantitative di Banca d’Italia rivelano un impatto sulla spesa minore

Ma, quel che più importa, è la sua distribuzione non omogenea, ad esempio, tra le fasce di età: i giovani fino a 34 anni dichiarano di vivere in un alloggio di proprietà per il 43,9% contro il 68,7% degli individui tra i 45 e i 54 anni e il 76,3% tra i 55 e i 64 anni. Specularmente l’affitto riguarda il 36,4% dei giovani, rispetto al 19,4% della fascia d’età 45-54 anni e il 16,4% di quella tra i 55 e i 64 anni.

Se si analizza la condizione professionale, si vede come gli operai che possiede l’abitazione in cui vive è di poco superiore alla metà (50,8%), mentre tra i dirigenti e gli impiegati direttivi la percentuale di proprietà sale all’84,2. Infine, nel primo quinto di reddito familiare (quello più povero) solo un terzo delle famiglie è proprietario della propria abitazione contro quasi il 90% nei due quinti più alti, ovvero con maggior reddito.

C’è quindi da aspettarsi che a consuntivo i 3,5 miliardi di costo dell’abolizione della Tasi sull’abitazione principale non potranno avere una distribuzione equa del beneficio, proprio in ragione della deliberata scelta di non prendere in considerazione strumenti, come le detrazioni, utilizzati – da sempre – per garantire la progressività dell’imposta e quindi una più efficace e giusta allocazione delle risorse aggiuntive.

Inoltre, è storicamente dimostrato, che le famiglie e gli individui maggiormente in difficoltà sotto il profilo del reddito disponibile rimettono in circolo nei consumi i benefici ricevuti dallo Stato molto più velocemente rispetto ai ceti più agiati, perché queste ultimi tendono ad accantonarne una quota significativa sotto forma di risparmio aggiuntivo.

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