I tre luoghi comuni della negoziazione

Esperienza, psicologia, culture diverse: siamo convinti di saperne, ma in realtà stiamo sbagliando tutto

È necessario, se non sfatare, quantomeno mettere in luce i luoghi comuni che affliggono la negoziazione, principalmente,riassumibili in tre frasi «Negoziare, il mio pane quotidiano, non ho nulla da imparare, lo faccio da sempre»; «Più di tutto conta capire la psicologia dell’interlocutore»; «Eh beh ogni volta una musica diversa perché cambiano culture e contesti».

I luoghi comuni racchiudono delle verità, ma sono pericolosi se diventano dogmi e imprimono una certa fissità di riflesso sui nostri comportamenti.

Analizziamoli rapidamente.

Per la negoziazione vale lo stesso principio applicato alla Nazionale di calcio: sono tutti commissari tecnici. Sono tutti negoziatori. E tutti eccellenti. Dimentichi che, se per un chirurgo che deve salvare vite ci vuole quantomeno un foglio di carta, quando si parla di capacità negoziale siamo in clima di totale autoreferenzialità e il successo negoziale è tutto da verificare poiché non coincide , come spesso si pensa, con il raggiungimento del proprio obiettivo, quanto piuttosto è determinato dal costo.

Spesso, pur attribuendo alla negoziazione un valore strategico altissimo, la si approccia con improvvisazione, convinti di farlo già al meglio. Ci si autodefinisce capaci negoziatori e la si vive come una capacità insita nel ruolo svolto. Per negoziare non bastano talento, istinto e esperienza. E neppure la conoscenza tecnica. Per negoziare si deve disporre di un set di competenze, conoscenze tecniche e abilità comportamentali: in una parola, metodo.

Per la negoziazione vale lo stesso principio applicato alla Nazionale di calcio: sono tutti commissari tecnici. Sono tutti negoziatori. E tutti eccellenti

Altro luogo comune molto frequente è che l’abilità di un negoziatore sia collegata alla capacità di saper comprendere la psicologia dell’interlocutore e all’agire di conseguenza.

Il piano delle emozioni è fondamentale, quasi scontato nelle relazioni umane, ribadirlo suona persino imbarazzante. Non è certo utile o originale suggerire che un ansioso possa essere rassicurato con l’umorismo, o che si debba chiedere scusa a fronte della percezione di aver recato offesa. Purtroppo è quello che ancora si legge anche su autorevoli riviste di management come Harvard Business Review che nell’edizione italiana del mese di dicembre ha ospitato contributi di tale impronta.

La psicologia è una materia troppo seria per essere ridotta in pillole e utilizzata un tanto al chilo da chiunque. Allo stesso modo, pensare che nel corso di una trattativa – che peraltro può avere modalità di svolgimento diverse –si riesca a fare un quadro completo e oggettivo della psicologia degli interlocutori e ad agire di conseguenza, è un’utopia.

Forse sarebbe meglio, anziché scomodare la psicologia, parlare di buon senso e di umanesimo, intriso di accettazione e reciprocità che è alla base di ogni relazione vera e profonda. Se manca il genuino riconoscimento dell’altro manca un presupposto che nessuna capacità di governo delle proprie e altrui emozioni può sostituire.

Se non si è caduti nelle prime due trappole, dell’improvvisazione e dell’approccio psicologico dilettantesco, vi attende insidiosa la terza, quella del registro culturale: «Eh beh ogni volta una musica diversa, perché cambiano culture e contesti». Sempre dalle autorevoli pagine della rivista di management sopracitata è dato apprendere da Erin Meyer che la chiave per cogliere il disappunto negli altri è l’individuazione di «segnali verbali chiamati dagli esperti di linguistica upgrader (ad esempio totalmente, completamente, assolutamente) e downgrader (ad esempio un pò, forse)» e scoprire che i «russi , francesi, tedeschi, israeliani, olandesi usano tantissimi upgrader per il dissenso, mentre messicani, thailandesi, giapponesi, peruviani e ghanesi usano tantissimi downgrader».

La managerialità, di cui la negoziazione è una delle componenti strategiche, non si compra un tanto al chilo

Il presupposto dunque sarebbe l’appartenenza di un individuo al suo ceppo culturale, secondo una visione stereotipata, statica e deterministica dell’essere umano, che non solo non ammette eccezioni, ma neanche il cambiamento.

Colpisce il richiamo ai ghanesi, non certo per l’altissimo tasso di probabilità che nella vita si avrà disedersi intorno al tavolo negoziale in loro compagnia, e si pone immediato un interrogativo: che cosa ti rende ghanese? Che lo siano entrambi i genitori? Perché mamma lo è e hai vissuto 15 anni in Ghana? Perché lo è papà e quindi hai un passaporto ghanese? Dunque se sei ghanese, anche se magari hai studiato 10 anni a Londra, hai vissuto a Francoforte, sappi che ti porterai in eterno la tua “ghanesità” nel tuo linguaggio e se ti azzarderai a usare un upgrader manderai in totale confusione non solo il povero Meyer, ma il tuo interlocutore, a quel punto totalmente disorientato.

Lo scenario è che ci prepariamo accuratamente sulla cultura – o presunta tale – dei nostri interlocutori: che succede se loro fanno lo stesso e tutti adottiamo stilemi opposti e contrari al nostro per adeguarci agli altri? Che succede se il giapponese incontra l’americano e, poco propenso per cultura al contatto fisico, sapendo che l’americano lo abbraccerà, lo fa a sua volta e l’americano, abituato alla fisicità, sapendola però estranea alla cultura del giapponese, vi rinuncia e si inchina? Il giapponese abbraccerebbe il vuoto e l’americano si troverebbe in una situazione di imbarazzante genuflessione!

Come ricordava il Dottor Poloni, direttore Hr di Banca Popolare di Milano, durante il recente Open Talk sulla negoziazione organizzato da Linkiesta, forse sarebbe meglio chiarirsi all’inizio della trattativa, tararsi e accordarsi sugli stilemi comportamentali, dichiarando reciprocamente e apertamente la propria eventuale ignoranza, scusandosi in anticipo se nel fare o nel parlare si dovesse dire qualche cosa che potrebbe urtare e quindi invitando a darsi dei reciproci feedback in merito.

La managerialità, di cui la negoziazione è una delle componenti strategiche, non si compra un tanto al chilo. Essa caratterizza l’insieme delle capacità, conoscenze e abilità che dovrebbe possedere chi guida il sistema economico di un paese, la cui competitività è strettamente legata alle condotte più o meno efficaci dei suoi leader.

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