TaccolaMicrocredito a Cinque Stelle: il fondo per le piccole imprese è una cosa seria (e funziona)

Sembrava uno spot elettorale, invece banche e consulenti stanno appoggiando la parte del Fondo di garanzia per le Pmi. Che è stata voluta dai grillini ed è stata ottenuta dando spallate al ministero dello Sviluppo e alle banche. Ma gli istituti chiedono ancora la firma dei parenti degli imprenditori

Poteva finire come la mulattiera in Sicilia, a Caltavuturo, Palermo. Era la scorsa estate, il viadotto Himera sulla Palermo Catania era appena crollato e i politici grillini fecero allestire in quattro e quattr’otto una “Regia Trazzera” per trattori per farci passare le auto e permettere agli automobilisti di risparmiare qualche minuto di viaggio rispetto alla strada alternativa suggerita dall’Anas. La “via dell’onestà”, come la chiamarono, aveva un merito: essere stata finanziata con parte degli stipendi degli stessi politici eletti in Sicilia. Ma restava e resta quello che è: una strada insicura, ripida, da chiudere appena la pioggia si fa troppo intensa. Insomma, un’operazione di immagine con poca sostanza.

Invece il “bando per il microcredito dell’M5s” è qualcosa che con il passare del tempo si sta rivelando un’operazione seria, forse la più seria messa in atto dal Movimento Cinque Stelle in questi anni. Giusto per citare qualche dato: ci sono 4mila consulenti del lavoro che hanno dato la disponibilità a seguire le micro-imprese nella gestione delle pratiche. Ci sono – da un paio di settimane – 4mila filiali della banca Intesa Sanpaolo che si stanno attrezzando per ricevere le domande. Ci sono 14 milioni di euro raccolti dai parlamentari M5s (di cui 10 milioni versati nel 2015) per alimentare il fondo e altri 30 milioni messi ogni anno dal ministero dello Sviluppo economico. Ci sono circa 400 milioni che vengono attivati sotto forma di finanziamento dal bando del microcredito, per un effetto moltiplicatore dei fondi accantonati. Ci sono soprattutto mille micro-imprenditori (904 al 7 gennaio) che hanno già avuto i soldi, fino a 25mila euro o 35mila euro in determinate circostanze. Secondo Carla Ruocco, deputata M5s sentita da Linkiesta, ora ci sono le condizioni perché «a fine 2016 si contino almeno 4mila o 5mila finanziamenti.

Non stiamo parlando di un paradiso, perché risulta che alcune banche continuino a chiedere garanzie come le fideiussioni dai parenti degli imprenditori. Perché le operazioni di accompagnamento delle stesse banche nei confronti delle imprese vanno a singhiozzo. E perché in alcuni sporadici casi, aggiunge la deputata, dei consulenti del lavoro hanno chiesto di farsi pagare servizi che sarebbero dovuti essere gratis (sul punto i consulenti del lavoro precisano di aver fatto verifiche e che si trattava di redazioni di business plan, che esulano dal servizio gratuito di orientamento). Rimane il problema dei tempi e il rischio che le domande non siano approvate. Ma ci sono comunque mille casi come quello di Sebastiano Sicignano, che a Napoli, con un socio a Salerno e uno a Messina, ha usato i 25mila euro del fondo per finanziare un’app destinata ai piccoli commercianti. E che al telefono conferma: «Dalla domanda all’accettazione da parte della banca sono passati un paio di mesi. Onestamente il processo è stato semplice. Ho avuto bisogno un aiuto da un consulente del lavoro per fare la domanda online e da un commercialista per fare il business plan, ma non è stato complicato. L’esperienza è positiva».

Oggi attorno al progetto microcredito voluto dsono coinvolti 4mila consulenti del lavoro e molte banche, tra cui Intesa Sanpaolo che ha messo a disposizione le sue 4mila filiali

Ma che cos’è il “Fondo M5s per le Pmi”, come è stato sintetizzato inizialmente dagli stessi grillini? Non è certo un conto corrente da cui le aziende possono pescare i finanziamenti. È invece uno dei “sottoconti” del Fondo di garanzia delle Pmi che è istituito presso il ministero dello Sviluppo economico (Mise). Il Fondo di garanzia nel suo complesso ha una dotazione di oltre 1,5 miliardi di euro e serve a permettere alle piccole imprese, se rispettano alcuni requisiti, di ottenere dei finanziamenti dalle banche senza dare in cambio una garanzia reale, come una casa o un capannone. Il fondo garantisce alle banche l’80% del valore finanziato. È gestito da un pool di cinque banche (tra cui Mps Capital Services Banca per le Imprese) che sono guidate dalla Banca del Mezzogiorno – Mediocredito Centrale, ramo di Poste Italiane. Per quanto poco pubblicizzato, sta funzionando (qui i dati recenti), anche se si sta andando verso una revisione dei meccanismi: ci si è resi conto che si rischia di finanziare impropriamente chi potrebbe avere prestiti normalmente; e si sta dando l’opportunità alle banche di utilizzare il fondo non per fare nuovo credito ma per rinnovare prestiti esistenti, sgravandosi delle coperture di capitale normalmente richieste.

I problemi ci sono: alcune banche continuino a chiedere garanzie come le fideiussioni dai parenti degli imprenditori. Perché le operazioni di accompagnamento delle stesse banche nei confronti delle imprese vanno a singhiozzo

Ora, nell’agosto 2013 entrano in gioco i griilini. Dall’inizio della legislatura hanno deciso che avrebbero restituito parte dei loro stipendi da parlamentari (una rendicontazione è sul sito Ti Rendi Conto?) e scelgono di mettere i soldi raccolti nel Fondo di garanzia. La loro idea è però di indirizzare i finanziamenti solo alle microimprese e di creare un bando specifico per il microcredito. Tutto però rimane sulla carta, perché una legge sul microcredito esisteva dal 2010 ma mancavano i decreti attuativi. Arriveranno solo alla vigilia di Natale del 2014, con un decreto ministeriale del Mise. «Da quel momento l’M5s ha cominciato a pubblicizzare l’iniziativa, con manifestazioni di piazza (guidate da Luigi Di Maio, ndr),» racconta Luca Erzegovesi, coordinatore della Laurea in gestione aziendale all’Università di Trento e curatore del blog Aleablog– «Così facendo ha preso in contropiede il Mise, che a maggio con una circolare ha definito le disposizioni operative e il meccanismo di prenotazione», cioè della piattaforma.

Ora l’architettura c’è, a partire dai requisiti: possono accedere micro imprenditori con partita Iva da meno di 5 anni, imprese personali con meno di 5 dipendenti, srl con meno di 10 e una dotazione patrimoniale ridotta (qui i dettagli). Non bisogna essere finiti negli elenchi dei cattivi pagatori e non c’è obbligo di certificazione antimafia («Sarebbe stata un plus, ma a volte non basta nemmeno quella», commenta Carla Ruocco). I soldi si possono usare per varie spese, dagli acquisti di materiali ai pagamenti di nuovi stipendi fino alla formazione. Se si hanno questi requisiti si può fare richiesta al Fondo di garanzia tramite una piattaforma online, da soli o tramite i consulenti del lavoro. Quattromila di questi (sui 28mila totali in Italia) hanno aderito a una convenzione: tutta la prima parte di fornitura di informazioni su cosa fare è gratuita. Se poi si decide di farsi assistere, si paga. A quel punto si entra in una delle banche che hanno aderito all’iniziativa, o in uno dei confidi. Qui si dovrebbe trovare non solo un finanziamento (25mila euro in 5 anni come massimo, con eventuale aggiunta di 10mila euro), ma un vero servizio di coaching, perché il decreto del Natale 2014 del Mise ha previsto che le banche forniscano almeno due servizi di consulenza tra i sette possibili. Si va dalla redazione del business plan con l’imprenditore al monitoraggio di come stiano andando le cose. Si dovrebbe anche trovare un direttore di filiale che controlla i progetti e, come si faceva prima delle rigidità di Basilea II, li valuta sulla base della bontà del prodotto. Non sono infatti previsti, per questi imprenditori, le classificazioni di “scoring” previste normalmente.

L’esperienza di Sebastiano Sicignano, che a Napoli ha usato i 25mila euro del fondo per finanziare un’app destinata ai piccoli commercianti. «Dalla domanda all’accettazione da parte della banca sono passati un paio di mesi. Onestamente il processo è stato semplice»

In realtà qui i problemi ci sono. «Le banche non sono state in grado di poter offrire i servizi ausiliari», attacca Francesco Duraccio, componente del consiglio nazionale dei consulenti del lavoro. «Sono ancora nella mentalità di retroguardia che devono fare il credito e basta, senza fare consulenza e monitoraggio. Le filiali si sono viste cadere addosso questi compiti e sono state impreparate». Capita così, aggiunge, che non redigano il business plan, costringendo i piccoli imprenditori a pagare un professionista. «È il punto di caduta del microcredito», dice. I limiti sono dovuti anche al fatto che finora si è parlato di istituti piccoli. «Se si guardava la situazione al giugno 2015, si trovavano solo un paio di Bcc del Sud», aggiunge il professor Luca Erzegovesi. La mancanza è grave perché questi servizi si pagano. Non direttamente, ma con un aggravio sul costo complessivo del finanziamento, ossia sul tasso Taeg. Se un finanziamento da 25mila euro a 5 anni con una casa messa a garanzia ottiene un tasso del 2,5-3%, quello con garanzia del bando microcredito ha un tasso del 5,5-6 per cento, con un picco del 9,63% di Bnl/Artigiancassa. «In alcuni casi c’è stato un boicottaggio, le banche sono sempre le banche», dice Carla Ruocco, riscoprendosi grillina. Ci sono poi aspetti di tradimento dello spirito del Fondo. «Il decreto ministeriale sul microcredito ha escluso la richiesta di garanzie reali sui finanziamenti, ma non ha escluso le garanzie personali – commenta Duraccio -. Dalle banche vengono quindi spesso chieste fidejussioni ai genitori o ad altri componenti della famiglia dell’imprenditore».

I servizi di consulenza si sentono negli interessi: se un finanziamento da 25mila euro a 5 anni con una casa messa a garanzia ottiene un tasso del 2,5-3%, quello con garanzia del bando microcredito ha un tasso del 5,5-6 per cento, con punte del 9,63% di Bnl/Artigiancassa

In realtà l’M5s si sta godendo una vittoria politica proprio grazie a una banca: Intesa Sanpaolo, che da gennaio ha accettato di aderire al sistema. «Avevamo aspettato che la legge finisse le sue vicissitudini, e poi da marzo 2015, ci siamo presi una pausa di riflessione per capire come funzionasse il fondo e quali servizi potessimo offrire», dice Andrea Lecce, direttore marketing di Intesa Sanpaolo. Con il passare dei mesi, però, aumentava la pressione. Da parte del Movimento 5 Stelle, («ma non è stato l’unico partito»), e «da tutti gli stakeholder, espressione del mondo sociale e politico, dai clienti e dai media». Una sorta di assedio, terminato con l’assenso. «Se arrivano idee giuste, da chiunque, noi le consideriamo, mantenendo un’autonomia decisionale. Abbiamo visto che c’era domanda ma non c’era abbastanza offerta e che i servizi offerti dagli operatori specializzati erano molto cari», commenta.

Per Duraccio la decisione di una banca come Intesa è soprattutto politica: «Hanno capito che rischiavano un danno di immagine se non avessero accettato». Una visione che coincide con quella di Carla Ruocco. «Il nostro modo di agire ha spiazzato il sistema bancario, che è abituato a ben altri atteggiamenti. Noi abbiamo chiesto di aderire a Intesa, che ha accettato, e l’abbiamo chiesto anche a Unicredit». Per Lecce c’è di più: un beneficio sociale e un beneficio di mercato. «È chiaro che il microcredito non dà gli stessi ritorni di un mutuo sulla casa, ma ci permette di entrare in contatto con molti nuovi clienti. Noi siamo pronti ad accettare anche le 10mila domande che sono in attesa». Il fronte sociale, in ogni caso, non sembra di facciata, perché nel caso di Intesa a supportare i microimprenditori saranno i 500 volontari dell’associazione Vobis. Sono ex dipendenti di Intesa Sanpaolo in pensione, che svolgono il servizio in modo gratuito.