Nel pomeriggio è stato convocato il comitato nazionale di sicurezza, presieduto dal ministro dell’Interno Angelino Alfano. Dopo gli attentati all’aeroporto e alla metropolitana di Bruxelles, si deciderà di aumentare il livello di allerta negli scali aeroportuali italiani. Le attese di alcuni responsabili della sicurezza degli aeroporti, contattati da Linkiesta, sono di passare da un livello 2 rafforzato al livello 3. In sostanza, più uomini delle forze dell’ordine, incluse le unità cinofile. È quello che è già accaduto dalla mattina a Roma Fiumicino ed è la stessa misura che è stata presa nei principali scali di Europa e Stati Uniti. La domanda che però è inevitabile porsi è se sarebbe stato possibile prevenire un attacco come quello avvenuto nello scalo di Bruxelles-Zaventem, dove almeno un kamikaze si è fatto esplodere nell’area dei check-in, prima dei controlli di sicurezza. Lo abbiamo chiesto a un’autorità in materia, Giulio De Carli, managing partner di One Works, studio di architettura italiano che progetta aeroporti in tutto il mondo.
Architetto De Carli, lei progetta aeroporti e li frequenta quotidianamente. Era possibile evitare un attacco come quello di oggi a Bruxelles?
Quello che è successo oggi era veramente difficile da evitare completamente. Gli aeroporti sono dei luoghi che rimangono sensibili ed esposti agli attentati, perché questi hanno effetti eclatanti. Da una parte per la concentrazione dei flussi, dall’altra perché la presenza di diverse nazionalità e comunità crea una risonanza internazionale.
Ci sono modi per attenuare il rischio di attentati?
Ci sono almeno tre strade per attenuare il rischio. La prima, come avviene, è quella di alzare il grado di allerta, il che porta a intensificare i controlli e a rendere più stringenti le procedure. La seconda ha a che fare con la tecnologia: l’evoluzione tecnologica consente di di innalzare i livelli di sicurezza. Sono necessari molti investimenti sia per aggiornare gli strumenti in uso sia per installare apparecchi di nuova generazione. Su questo c’è ancora molto da fare.
La terza strada?
Consiste nel configurare gli spazi aeroportuali in modo che sia fisicamente più facile effettuare i controlli. Spesso gli aeroporti sono il risultato di una sommatoria di strutture, connessioni, aree scoperte, che portano a geometrie complesse, nelle quali è più difficile fare una sorveglianza adeguata. Adeguare gli aeroporti è una strada che si può percorrere, anche se ovviamente gli investimenti sono elevati.
«La verità è che con gli attacchi kamikaze azzerare il rischio di attentati è impossibile. E dagli attacchi del 2015 a Parigi abbiamo capito che l’oggetto sensibile è la nostra comunità, non l’infrastruttura aeroportuale»
Ci sono aeroporti come quelli di Istanbul o di Tel Aviv nei quali i metal detector sono posti all’ingresso della struttura (landside) e non solo dopo gli attuali controlli di sicurezza (airside). Un attacco come quello di Bruxelles, davanti ai banchi del check-in sarebbe stato impossibile. Si potrà arrivare a misure del genere negli scali europei?
Non si può escludere che l’intensificarsi dei meccanismi di sicurezza ci porti anche a queste misure. Sono accorgimenti già presi in Medio Oriente e in alcuni scali degli Stati Uniti. È tutta questione di trovare un compromesso tra le necessità di sicurezza e l’impatto che queste hanno sui flussi, perché se la configurazione degli aeroporti non è adeguata, ci sarebbero sicuramente forti rallentamenti.
Ma sarebbero misure deterrenti o si sposterebbe solo l’area di un potenziale attacco alle code per entrare nella struttura aeroportuale?
L’efficacia è dubbia. Il fatto che si creino code fuori potrebbe generare impatti ancora maggiori. Per un kamikaze, il fatto che un attacco avvenga prima o dopo l’ingresso in aeroporto cambia poco. La verità è che con gli attacchi kamikaze azzerare il rischio di attentati è impossibile. E dagli attacchi del 2015 a Parigi abbiamo capito che l’oggetto sensibile è la nostra comunità, non l’infrastruttura aeroportuale.
Gli enti regolatori stanno discutendo di introdurre misure come i metal detector all’ingresso negli aeroporti europei?
A livello di gruppi di lavoro degli organismi internazionali se ne discute molto. Sono però più interessati a come attuare le restrizioni che potrebbero essere decise dai governi.
Quanto costerebbero: si parla di migliaia o milioni di euro?
Sicuramente si parla di milioni di euro, gli apparati radiogeni hanno costi importanti. Inoltre dovrebbero essere posizionati in spazi coperti e climatizzati, andrebbero a impattare sugli spazi utili dei passeggeri, se non si ampliano contestualmente i terminal.
«La situazione degli aeroporti italiani dal punto di vista della sicurezza è un patchwork. Rispetto agli scorsi anni la situazione è migliorata, ci sono diversi interventi di strutturazione in corso. C’è però un rovescio della medaglia: il fatto che oggi ci siano molti cantieri aperti non aiuta»
L’aeroporto di Bruxelles, secondo i racconti di chi lo frequenta quotidianamente, da novembre era pieno di soldati, dai parcheggi alle zone di imbarco. Altri però in queste ore hanno parlato di scalo “incomprensibilmente sguarnito”. Qual è la sua opinione?
L’aeroporto di Bruxelles è tra i più moderni e attrezzati d’Europa, anche dal punto di vista della sicurezza. È sicuramente al passo coi tempi. Più che pensare a cosa si possa fare a Bruxelles, penserei a cosa si possa fare negli aeroporti che non sono ancora a quel livello.
Com’è la situazione negli aeroporti italiani?
La situazione è un patchwork, ci sono situazioni precarie e altre più aggiornate. C’è da dire che rispetto agli scorsi anni, quando i contratti di programma erano bloccati e gli interventi non partivano, la situazione è migliorata, ci sono diversi interventi di strutturazione in corso dei terminali passeggeri e altri sono previsti a breve. C’è però un rovescio della medaglia.
Quale?
Il fatto che oggi ci siano molti cantieri aperti non aiuta dal punto di vista della sicurezza.