Pubblichiamo il capitolo “Unione Europea e democrazia”, tratto dal libro di Lorenzo Castellani Il potere vuoto, edito da Guerini e associati. È il ritratto di una nuova (im)possibile Europa che sappia superare le difficoltà del presente. Dalla struttura elefantiaca alla distanza dai cittadini, fino alle regole incomprensibili: sono molte le cause di diffidenza da parte degli europei nei confronti degli organismi di Bruxelles, e vanno risolti. La proposta di Nathan Gardels e Nicholas Berggruen punterebbe su una confederazione politica, con leggi elettorali uguali in tutti gli Stati membri e una serie di prerogative comuni. Funzionerebbe? Forse sì, forse no. Di sicuro avrebbe bisogno di un demos europeo che, al momento, non esiste. Meglio allora puntare sulle libertà (economiche, in primo luogo), e rafforzare tutte le autorità in grado di sorreggerle e mantenerle. Se c’è fiducia, c’è anche progresso.
La situazione che da anni caratterizza il dibattito pubblico sulle istituzioni europee e le sue possibili evoluzioni rischia di sfociare nella banalità. Stiamo assistendo a una polarizzazione dello scontro tra sedicenti europeisti e anti-europeisti che fatica a inquadrare il problema democratico e istituzionale in cui è caduta l’Unione Europea. Da un lato gli europeisti tendono a difendere lo status quo del quadro costituzionale europeo e si scontrano con le complessità reali nel far progredire il processo di integrazione e politicizzazione europea, dall’altro gli euroscettici si scagliano contro l’economia politica e la regolazione europea senza riuscire a immaginare un disegno alternativo dell’Unione Europea che non sia quello della deflagrazione dell’Unione stessa e del suo mercato unico.
Mentre questo dibattito si trascinava sterile, un sondaggio del gennaio 2014 realizzato dal settimanale inglese The Economist evidenziava come solo il 30% dei cittadini europei guarderebbe con favore all’Unione Europea. Fino a dieci anni fa la percentuale era esattamente inversa: due cittadini su tre guardavano con favore all’Europa unita. È fondamentale, quindi, interrogarsi su ciò che nell’immaginario civile è diventata oggi l’Unione Europea e provare a comprendere le motivazioni di un così diffuso malessere nei suoi confronti. L’Unione costruita in questi anni sembra aver generato quel che si dice un «mostro buono»: mostro perché si è andati verso un super-Stato caratterizzato da ipertrofia burocratica, scarsa accountability e superfetazione legislativa, buono perché ha permesso alle popolazioni europee di godere di un lungo periodo di pace interna e di costruire importanti processi d’integrazione.
Le istituzioni europee, oggi, sono percepite con distanza e diffidenza dagli europei stessi perché a un’integrazione economica piena culminata con la moneta unica non ne è conseguita una democratica e politica. Questo fenomeno è, inoltre, acuito dalla farraginosità del funzionamento delle istituzioni europee.
Se si prova a comprendere il meccanismo del processo legislativo del Parlamento europeo ci si trova di fronte una serie di passaggi complicatissimi, bizantini, difficili anche solo da immaginare per chi non ha almeno una laurea in giurisprudenza. L’intellegibilità delle istituzioni europee per il cittadino medio risulta davvero troppo bassa. Allo stesso modo meccanismi complessi e bizzarre ripartizioni di competenze tra Stato e Unione danno luogo a veri e propri aborti regolativi che infastidiscono e allontanano il cittadino. Davvero l’Unione Europea deve stabilire le dimensioni del pistacchio di Bronte o il colore dei mandarini o le modalità con cui vengono mescolati grano e acqua? La percezione che ne esce è quella di un Leviatano lontano, poco legittimato, avverso alla produzione industriale, teso all’omogeneizzazione delle differenze nazionali e tutto centrato su una complessità burocratica che i cittadini vorrebbero solo rifuggire.
È fisiologico poi che nel processo di formazione dei governi nazionali, quando Bruxelles caldeggia una linea di politica economica piuttosto che un’altra, la reazione sia di feroce indisposizione nei confronti delle istituzioni europee.
La questione europea risulta di enorme complessità e prima di provare a produrre delle soluzioni sono necessarie alcune brevi premesse. La prima è quella posta dallo storico britannico Larry Siedentop il quale in un recente lavoro intitolato Democracy in Europe in uno dei capitoli si chiede «Where are our Madisons?», ed è certamente vero che l’Europa, nella sua odierna costruzione istituzionale, manca dei suoi James Madison.
Tuttavia, non bisogna commettere l’errore di presupporre che l’Europa sia oggi nella stessa situazione in cui l’America si trovava più due secoli fa. Non si possono replicare modelli derivanti da situazioni storiche assolutamente diverse tra loro. Il caso del cosiddetto «federalismo europeo» risulta esemplare in tal senso, perché la scienza politica ha tratteggiato modelli di federalismo molto diversi tra loro che potrebbero essere applicati. La chiamata al federalismo, dunque, rischia di restare una bolla retorica vuota e di non argomentare nulla di preciso. Il federalismo europeo oggi sembra indicare semplicemente l’esistenza di un problema irrisolto per il quale non esiste una soluzione.
In secondo luogo, va evidenziato come la costruzione europea non può essere separata dagli Stati nazione e dall’impatto della regolazione internazionale figlia della globalizzazione. Bisogna comprendere, prima di tutto, quale ruolo l’Europa possa giocare tra gli Stati nazione e la globalizzazione. Ciò che è certo è che questa non può essere il sostituto per il declino degli Stati nazione e per i cambiamenti della globalizzazione. Essa non può essere una sorta di terra di mezzo tra la crisi delle democrazie nazionali e il nuovo ordine mondiale.
Perché no? La prima ragione è l’inesistenza di un demos europeo. Ciò che definisce gli Stati nazionali, oltre alle coordinate comuni di lingua, tradizioni e territorio, è quella che Rosanvallon chiama «community of redistribution», ovvero quella solidarietà tra cittadini che fonda lo Stato. Questa differisce dalla semplice «solidarity of humanity» che fonda la protezione dei diritti umani e la solidarietà verso le vittime di guerre e persecuzioni. Questo secondo concetto, infatti, non implica una redistribuzione delle ricchezze da parte dello Stato, ma solamente la protezione di diritti e libertà, e rappresenta la condizione attuale dell’Unione Europea. Potremmo dire che se la nazione è lo sviluppo di una vita in comune, la solidarietà umana si riduce alla difesa della vita stessa, e se ci si domandasse in quale delle due categorie ricadano oggi le istituzioni europee la risposta sarebbe semplice. La redistribuzione effettuata dalle istituzioni dell’Unione Europea rappresenta l’1,27% del prodotto interno lordo europeo. L’intera costruzione europea è dunque una «solidarity of humanity», ma non genera una solidarietà che incida sul livello di vita dei cittadini. Per essere più precisi, alcune redistribuzioni, come quelle nella politica agricola, vengono gestite dall’Unione Europea, ma si riducono a pratiche settoriali e alla cura di alcuni interessi strategici. Per queste ragioni, l’Europa non può essere utilizzata come veicolo per riscattare, o potremmo dire rifondare, gli Stati nazionali in un contesto più ampio.
A queste si aggiunge il fatto che la costruzione delle nazioni si è fondata prevalentemente sullo sviluppo del welfare State e nel momento in cui questo ha mostrato tutti i suoi limiti e fallimenti la tenuta delle nazioni stesse vacilla. Basta pensare alle numerose richieste di secessione o indipendenza, basate anche su questioni di politica economica, che si sono succedute negli anni recenti: dalle tensioni tra i fiamminghi e i valloni a quelle tra Catalogna e Spagna e tra Regno Unito e Scozia. Ed è per la stessa ragione che non si è riusciti a costruire un demos europeo. Non sarà la creazione di una supernazione (e democrazia) europea a risolvere i problemi che oggi attraversano gli Stati membri.
Dall’altro lato, con lo sviluppo del mercato unico europeo e l’apertura dei mercati globali l’Europa ha assunto un ruolo irrinunciabile in termini di regolazione economica. La costruzione europea dovrebbe, proprio per questi motivi, essere considerata solamente dal punto di vista della regolazione e non dal punto di vista delle istituzioni sociali. Queste ultime sono destinate a rimanere appannaggio delle democrazie nazionali. Il ruolo dell’Unione Europea dovrebbe essere quello di mettere in pratica una nuova, seppur limitata, universalità in cui i popoli europei possano riconoscersi basata sulla tutela delle libertà fondamentali, un ruolo di arbitro nel mercato unico, uno spazio di libera circolazione.
L’ultima premessa è se l’Europa debba procedere verso una Costituzione o dotarsi di una Carta, intesa come una charter della tradizione anglosassone. Esiste, infatti, una differenza tra la Costituzione e la Carta ed è da ritenere quest’ultima come uno strumento più agevole per la struttura dell’Unione Europea. L’obiettivo di una Costituzione è quello di organizzare un demos in un territorio limitato e istituendo una struttura ben definita di poteri pubblici. Al contrario, una Carta ha l’obiettivo di organizzare uno spazio aperto attraverso l’affermazione di principi regolatori e dando vita a istituzioni regolative. Ci sono, dunque, tra di esse due ordini di differenze.
Il primo è che, mentre una Costituzione crea delle istituzioni pubbliche, la Carta si limita a esprimere dei principi regolativi. Ciò che viene organizzato da una Carta è la legge, ciò che viene organizzato dalla Costituzione è la divisione dei poteri pubblici. Il secondo è che la Costituzione definisce uno spazio territorialmente limitato, mentre la Carta presenta una maggiore flessibilità non ponendo limiti di ampliamento o restrizione. Non a caso le Nazioni Unite vennero istituite con una Carta e non con una Costituzione. Considerato il problema dei confini dell’Europa, con allargamenti e possibili restringimenti, la flessibilità data da una Carta sembra calzare meglio rispetto alla rigidità sui confini imposti da una Costituzione. Come potrebbe organizzare le istituzioni europee una Carta? Oggi l’Unione Europea presenta due sostanziali problemi politici: il deficit di democrazia e la natura intergovernativa delle sue procedure decisionali e istituzionali. Molti hanno indicato come risoluzione di queste problematiche la strada di una maggiore parlamentarizzazione ovvero la scelta dei rappresentanti con elezioni generali europee, l’elezione diretta del presidente dell’Unione e via dicendo.
Sul punto una delle proposte più originali e innovative è stata elaborata da Nathan Gardels e Nicholas Berggruen i quali hanno proposto un modello confederale. Questo permetterebbe da un lato di lasciare autonomia, e quindi far competere tra loro, ai diversi Stati europei e dall’altro di avere un sistema istituzionale che funzioni in modo semplice e solo per le materie messe in comune da questi.
Il primo passo politico, secondo i due studiosi americani, risiede nel cambio del sistema elettorale delle elezioni al Parlamento europeo, non più un meccanismo in cui ogni Stato sceglie la propria legge elettorale per eleggere i parlamentari, ma una sola legge per tutti gli Stati membri così da realizzare delle elezioni generali europee. Questo processo elettorale favorirebbe il consolidamento delle famiglie politiche europee e permetterebbe a un qualsiasi cittadino europeo di candidarsi in qualsiasi paese dell’Unione Europea e non più solo in quello d’origine come oggi. Per evitare distorsioni tipiche di alcune democrazie europee i due autori propongono di stabilire una soglia di sbarramento del 10% per entrare in Parlamento. Con le elezioni generali andrebbe a favorire così la formazione di un demos europeo, di un sentire comune, di una cittadinanza che si sviluppa attraverso una più ampia e comune partecipazione democratica.
A questo dovrebbe seguire una modifica nei rapporti tra Parlamento e Commissione Europea. Il presidente della Commissione viene eletto direttamente dal Parlamento formato con le elezioni generali europee e forma il proprio gabinetto di governo. La Commissione stabilisce un rapporto di fiducia, modello Westminster, con il Parlamento. Il gabinetto è formato dai ministri dell’Unione Europea e tra questi il ministro delle Finanze redige il bilancio da approvare. I due americani suggeriscono un’evoluzione del sistema in senso bicamerale, così da valorizzare maggiormente il ruolo del Consiglio Europeo che diventerebbe la Camera alta dell’Unione. Questo potrebbe essere formato o da due membri per Stato scelti dal paese membro, proprio come il Senato americano, oppure con un numero di membri assegnato in rapporto alla popolazione di ciascun paese. La Camera alta, come il Parlamento, gode del potere d’iniziativa legislativa, ma il rapporto di fiducia si ha solo tra la Commissione e il Parlamento.
Per quanto riguarda l’approvazione del bilancio e l’introduzione di nuove tasse, queste dovrebbero essere approvate a maggioranza da entrambe le Camere. Su quali materie andrebbe a incidere un assetto istituzionale di questo tipo? I due autori ritengono che il ruolo dell’Unione Europea vada limitato a un numero di materie meno ampio rispetto a quello attuale, dove il fiume della legislazione europea sembra infilarsi in ogni campo dello scibile umano. I temi di competenza esclusiva potrebbero essere: politica estera, infrastrutture comuni, energia, mercato unico e concorrenza, repressione dei crimini transnazionali. A queste si aggiunge la politica monetaria per gli Stati che hanno adottato l’euro. Il bilancio dovrebbe essere a fortiori innalzato al fine di provvedere alle materie indicate. La Corte di giustizia europea dovrà occuparsi, con questa governance, di redimere le controversie tra la legislazione europea e quelle nazionali. A tale costruzione si sommano la difesa e la promozione del mercato unico europeo, degli accordi di libero scambio con gli Stati esterni all’Unione e del mantenimento dei parametri di Maastricht per gli Stati che aderiscono al sistema monetario.
Secondo i due studiosi il risultato sarebbe un’Europa capace di muoversi in modo unitario nei confronti del mondo sul fronte della politica estera, delle infrastrutture comuni, ma allo stesso tempo capace di lasciare ampia autonomia agli Stati membri sulle questioni economiche e di amministrazione interna. Senza dubbio la proposta potrebbe essere un compromesso equilibrato tale da evitare distruzioni derivanti dalle disfunzioni attuali dell’Unione e da eliminare la proliferazione di un super-Stato europeo invasivo e assistenzialista. Non da ultimo, questo assetto istituzionale supererebbe il problema democratico perché darebbe vita a elezioni generali europee, un sistema partitico più integrato, una rappresentanza bicamerale, una ripartizione più chiara delle competenze, un governo europeo che abbia poteri propri della sua tradizionale funzione e che risponda attraverso meccanismi di fiducia al Parlamento.
Se il progetto proposto da Gardels e Berggruen è certamente suggestivo, non manca di suscitare anche alcune perplessità. Per prima cosa, come si è visto, il processo di formazione del demos europeo è ancora molto arretrato, soprattutto dal punto di vista dell’idem sentire comunitario che serve a fondare una democrazia, e basta pensare alle drammatiche differenze politiche emerse in questi anni di crisi economica. In secondo luogo, è molto difficile unire un territorio che presenta squilibri economici e sociali molto ampi così come è difficile procedere nell’integrazione politica tra Stati che adottano la stessa moneta e Stati che hanno la propria valuta. È già complesso immaginare il funzionamento di una moneta unica, l’euro, senza un debito pubblico comune, e lo è ancora di più pensare una democrazia senza debito pubblico condiviso. La terza considerazione è che la democrazia europea rischia di presentare, probabilmente in modo ingigantito, i problemi che stanno fronteggiando tutte le democrazie occidentali. Le istituzioni europee così integrate avrebbero poche possibilità di sopravvivere alle aspettative dei cittadini e i risultati potrebbero essere catastrofici: estremizzazione dei partiti politici europei, ascesa del messaggio populista, utilizzo improvvido della spesa pubblica per comporre i contrasti. Pensare di risolvere le problematiche delle istituzioni europee cambiando a tavolino, senza un lungo processo politico che allo stato attuale non è neppure iniziato, sembra un’utopia quasi paragonabile a quella di chi vorrebbe recedere da tutto: moneta unica, libera circolazione, istituzioni.
Si potrebbe, invece, pensare l’Europa come una serie di istituzioni maggiormente concordanti con la globalizzazione e la sovranità politica pluralista che abbiamo visto. Come primo rilievo, tutte le istituzioni si basano sul fondamentale requisito della fiducia e nel mercato la fiducia costituisce un elemento spontaneo: non si chiudono accordi economici senza fidarsi l’uno dell’altro. Per questo motivo la tutela e la promozione del libero mercato devono restare uno degli elementi cardine dell’Europa futura perché, come sosteneva Luigi Einaudi, la libertà economica precede la libertà politica.
Dunque, quel ruolo di arbitro nelle controversie del mercato e la funzione regolativa delle istituzioni europee rispetto alla concorrenza e alle attività produttive devono essere rafforzati ed estesi. Allo stesso modo, un importante ruolo è svolto dalle Corti europee e andrebbe anch’esso mantenuto ai fini di avere una rule of law, una tutela delle libertà fondamentali, più forte possibile tanto a livello nazionale quanto europeo. Nel tempo, la costruzione di un common law europeo fatto di decisioni giurisprudenziali è un altro elemento di fiducia che può contribuire alla formazione di un sostrato europeo comune. Una terza considerazione riguarda la società civile intesa come quell’insieme di portatori d’interessi, associazioni, organizzazioni non governative che possono fare dell’Europa un’arena aperta al pubblico. Alexis de Tocqueville evidenziava come la società civile americana fosse uno degli elementi fondamentali per il sistema politico americano e come il ruolo da questa giocato nella costruzione della democrazia federale fosse stato estremamente influente. Lo spazio della rappresentanza nelle istituzioni moderne, come si è visto precedentemente, va ben oltre la democrazia diretta e rappresentativa e può esprimersi anche attraverso questi «corpi intermedi» che possono intervenire, presentare interessi, chiedere di essere ascoltati, farsi portatori di istanze presso le istituzioni europee. Essi sono, come fa notare lo scienziato politico americano Robert D. Putnam, il «capitale sociale» di cui si nutrono le istituzioni e la democrazia e la loro importanza è dovuta al fatto che il capitale sociale pre-esiste allo sviluppo politico di un regime politico funzionante.
Per concludere, si deve ritenere che lo sviluppo di questi tre aspetti possa valere molto di più di qualsiasi razionalizzazione dello spazio parlamentare o di qualsiasi operazione d’ingegneria costituzionale. Si pensi a istituzioni come le autorithies per la regolazione del mercato o i commissari investiti delle negoziazioni commerciali internazionali, questi devono essere considerati oggi, e agire di conseguenza, come una serie di agenzie di regolamentazione più che come componenti di un governo europeo debole perché costruito con scarsa legittimazione. Quando oggi pensiamo alla democrazia, non possiamo dimenticare le problematiche che questa porta con sé, e se le forme della politica sono cambiate così come la rappresentanza, tali considerazioni devono essere valide anche per qualsiasi tentativo di cambiamento della governance europea.