Come la Brexit ci ha confuso le idee sulla negoziazione

All’indomani del referendum che ha decretato l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue una delle espressioni più ricorrenti è stata la parola “negoziazione”. Non c’è parola più abusata, strapazzata e vilipesa della parola negoziazione, usata tout court come sinonimo di conduzione di una trattativa

All’indomani del referendum che ha decretato l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea una delle espressioni più ricorrenti è stata la parola “negoziazione”.

Non c’è parola più abusata, strapazzata e profondamente vilipesa, oggi come ieri, della parola negoziazione, usata tout court come sinonimo di conduzione di una trattativa, accostata al compromesso e attuata con modalità alternativamente impositive o concessorie che con essa non hanno nulla a che fare.

Negoziare è un arte, complessa, articolata, faticosa, che richiede un set di competenze e capacità che nessuno può arrogarsi di possedere per mero intuito, o peggio, per il ruolo che ricopre o la funzione che svolge. Prevale ovunque un dilettantismo arrogante, narcisista e irresponsabile. E se ne vedono purtroppo i risultati. Trovarsi a condurre delle trattative non vuol dire negoziare, né tantomeno saperlo fare.

Peggio ancora poi se si confondono mere attitudini relazionali con capacità che in realtà richiedono competenze approfondite, affinate e strutturate al pari, se non superiori, di quelle tecniche. La difficoltà maggiore nei processi di selezione della classe dirigente, politica come manageriale, la cui attività negoziale ha impatti evidentemente amplificati, risiede in prima battuta nella decodifica delle competenze pertinenti al ruolo, nello scomporle e ricondurle a processi con output ben definiti.

Limitarsi a valutare positivamente l’efficacia dei propri e altrui comportamenti negoziali solo perché si è raggiunto un determinato obiettivo o un certo accordo è ingannevole.

Il punto non sta nel raggiungere nel chiudere un accordo, il punto è come lo si è chiuso. Alla fine del primo conflitto mondiale, con la pace di Versailles, si sono gettati i semi del nazismo.

Il punto non sta nel raggiungere nel chiudere un accordo, il punto è come lo si è chiuso. Alla fine del primo conflitto mondiale, con la pace di Versailles, si sono gettati i semi del nazismo. Non poteva che essere così alla luce del contenuto e delle modalità con cui fu raggiunto: eppure era stato considerato un ottimo negoziato condotto da grandi (?) statisti e politici di rango (?). In seno al concetto di capacità negoziale e dei risultati dell’attività che né è espressione, tutto diventa dolorosamente fluido e relativizzabile. E pare fare comodo così.

Di certo una società, se fosse fondata su reali processi meritocratici di selezione e di responsabilizzazione dei suoi leader, tenderebbe quantomeno a valutare con maggiore attenzione le competenze di chi ne vanta il possesso e ne è chiamato al delicato utilizzo.

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