La crisi del mattone e le scelte d’investimento degli italiani saranno il tema di un evento che si terrà il 30 maggio prossimo presso la redazione de Linkiesta, in collaborazione con Moneyfarm. Per saperne di più e per registrarti, clicca qui
«La casa come bene rifugio non esiste più». È drastico Andrea Guarise, giovane fondatore e managing director di Algebria Capital, società di asset e risk manager attiva nella valutazione di progetti di investimento immobiliare. Con tanti saluti a una cultura, quella italiana, che ha da sempre fatto delle “quattro mura” la cassaforte dei propri risparmi.
Qualche numero: il tasso di proprietà immobiliare nel nostro Paese, seppure in calo, è ancora oggi pari al 73%, di tre punti circa superiore alla media europea, superiore di dieci punti a quello francese e di venti punti a quello tedesco. Ancora: otto proprietari su dieci sono realtà in cui il capofamiglia è un operaio, un impiegato o un disoccupato, o nel 40% dei casi un pensionato. Investimenti di popolo, quindi, con scarsa cultura finanziaria e molto senso comune: « L’italiano medio andava a investire sul mattone perché era qualcosa di concreto – continua Guarise -, figlio di un pensiero mainstream che raccontava ai piccoli proprietari che gli immobili si sarebbero sempre rivalutati e che ci si poteva guadagnare qualcosa, rivendendoli». Non a caso, il 15% degli italiani è pure proprietario di una seconda abitazione.
Un processo, questo, che è andato avanti senza particolari intoppi fino al 2008. Il numero di transazioni immobiliari normalizzate continuava a crescere finendo per raddoppiare tra il 1985 e il 2007, da 400 a 800mila compravendite l’anno. Crescevano anche i prezzi medi degli immobili, giocoforza, più che triplicati in cinquant’anni, tra il 1958 e il 2008. Cresceva pure il peso delle costruzioni nella nostra economia, il numero di imprese e di addetti, i lotti di terreno destinati al residenziale, le gru e i cantieri. E già che c’erano crescevano pure i balzelli e il relativo gettito dello Stato sugli immobili.
Fino alla crisi, questo giochino aveva funzionato fin troppo bene, al punto da convincere chiunque in Italia che le cose non sarebbero mai cambiate, che il mercato immobiliare sarebbe andato avanti all’infinito a macinare terreno, rendite e margini. Così non è accaduto. Le transazioni immobiliari sono crollate di 14 punti percentuali nel solo 2008. Anche i prezzi sono scesi, e continuano a scendere: nel terzo trimestre 2016 i valori registrati nella zona euro sono aumentati del 3,4%, rispetto al terzo trimestre 2015 e l’Italia, insieme a Cipro, è l’unico Paese che ha fatto segnare un decremento, seppur contenuto allo 0,9%. Non bastasse, ci si è messo pure il fisco, che ha usato gli investimenti immobiliari degli italiani per fare cassa, durante le fasi più acute della crisi del debito pubblico, nel 2011. Un vizietto che non ha mai perso, del resto: «Nonostante l’abolizione della Tasi sulla prima casa, la tassazione sugli immobili nel nostro paese continua ad essere del 30% più elevata rispetto al 2011», ha spiegato a Il Giornale, Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, lo scorso 23 agosto.
«Perché si abbassano i prezzi? Semplice: a chi vendo la casa se nessuno la compra. E se scelgo di tenermela, chi ci metto dentro che mi paga un affitto alto? Se invece la tengo vuota, ci pago sopra un sacco di tasse. Per assurdo, è più conveniente metterci dentro i rifugiati. Comunque vada, la casa non si rivaluta più»
Non solo le cose non sono tornate ad andare meglio, quindi, ma stanno andando peggio che altrove: «Perché si abbassano i prezzi? Semplice: a chi vendo la casa se nessuno la compra – si chiede ancora Andrea Guarise – E se scelgo di tenermela, chi ci metto dentro che mi paga un affitto alto? Se invece la tengo vuota, ci pago sopra un sacco di tasse. Per assurdo, è più conveniente metterci dentro i rifugiati. Comunque vada, la casa non si rivaluta più». Risultato? «Il risparmio delle famiglie è una ricchezza virtuale, perché i soldi che uno crede di avere nel mattone non ci sono più». «Se guardiamo al valore reale (che considera l’inflazione) degli immobili negli ultimi 25 anni – gli fa eco Paolo Galvani, ceo di Moneyfarm – si nota come il valore di un investimento immobiliare abbia perso mediamente un valore vicino al 20%. Questo vuol dire che chi avesse investito in immobili non sarebbe riuscito a proteggere il valore del suo capitale dall’inflazione, che negli ultimi 25 anni non ha neanche galoppato particolarmente».
C’è chi pensa una soluzione per le seconde case possano essere gli affitti brevi – AirBnb e affini, per intenderci – ma anche in questo caso è una speranza per pochi: «Certo, è un mercato molto positivo, io stesso ho investito una società che fa affitti brevi in tutta Italia – racconta Guarise -. All’inizio veniva venduto come una seconda entrata per le case ereditate, per darle a turisti e lavoratori universitari. In realtà il mercato si sta specializzando e stanno tirando solo le città turistiche, lavorative o dove ci sono eventi. Milano con Expo, settimana della moda e salone del mobile. Sicuramente Firenze, Venezia, Roma. Sotto Roma il mercato degli affitti brevi – al netto del turismo – non esiste». Anche Galvani la pensa allo stesso modo: «La crescita del valore degli immobili è trainata infatti dalle grandi città, mentre nei centri piccoli e medi e nella maggior parte delle località turistiche non si vedono ancora prospettive di ripresa. Stesso discorso vale per il mercato degli affitti, caratterizzato in Italia dalla difficoltà per il proprietario di tutelarsi nei confronti di inquilini morosi».
«Se guardiamo al valore reale (che considera l’inflazione) degli immobili negli ultimi 25 anni si nota come il valore di un investimento immobiliare abbia perso mediamente un valore vicino al 20%. Questo vuol dire che chi avesse investito in immobili non sarebbe riuscito a proteggere il valore del suo capitale dall’inflazione, che negli ultimi 25 anni non ha neanche galoppato particolarmente»
Il tutto senza contare la componente fiscale, che appesantisce ulteriormente il quadro di un mercato a macchia di leopardo. In Spagna, ad esempio, fino a venti appartamenti, non è necessario fornire comunicazioni, mentre in Italia occorre informare Istat, Regione, Questura, nonché il Comune per tassa di soggiorno. Finisce che non si fa, o si fa in nero, «ma se fai nero, ti vengono a prendere, perché sei registrato su Air Bnb – aggiunge Guarise – nel contesto della burocrazia italiana, nemmeno questa è una fonte di redditività».
Che fare, allora? Secondo Galvani «in un’ottica di lungo termine, grazie alla composizione degli interessi (effetto che manca nell’investimento immobiliare), anche semplici strumenti bilanciati che affianchino l’ottica della protezione a quella della crescita del capitale, avrebbe dato molte più soddisfazioni. Sicuramente la casa ha anche un valore ulteriore, ma l’acquisto di un’abitazione in una località di villeggiatura o dell’investimento immobiliare oggi non sembra la scelta migliore da un punto di vista finanziario, specialmente nei piccoli centri».
Ci stiamo normalizzando? L’immobiliare si sta adeguando a quanto accade all’estero? Presto per dirlo, ma la questione è aperta: «Io non ho mai fatto corsi di finanza o di gestione del risparmio, a scuola dell’obbligo, ma ai nostri figli toccherà – chiosa Guarise – Perché ci sarà un depauperamento di ricchezza nei prossimi anni. Ciò che ci rende ricchi soltanto virtualmente è la nostra ignoranza finanziaria. Per normalizzarci, dobbiamo rimetterci a studiare».