“Sotto Tiberio”, quando sbagliare un libro significa azzeccarlo

Nick Tosches è un pazzo e il suo è un romanzo fuori di testa, ridicolo, bellissimo, esagerato, blasfemo, incontinente. E sbagliato. Ma è per questo che funziona

Nick Tosches è un pazzo e il suo è un romanzo fuori di testa, ridicolo, bellissimo, esagerato, blasfemo, incontinente. E sbagliato.

Mi spiego. Questa è la storia di Gaio Fulvio Falconio, ghost writer dell’imperatore Tiberio, siamo attorno al 30 d.C. Falconio è un grande oratore, scrive bene, riesce a nascondere le pazzie e le perversioni del suo Imperatore dietro una coltre di retorica e ampollosità al miele. E Tiberio ripete come un burattino le sue parole, ingraziandosi il popolo e legittimando il suo degrado.

Poi Tiberio va fuori di testa e manda Falconio in esilio in Giudea, da Ponzio Pilato. Qui, il nostro amico conosce un ladruncolo di bassa lega ma con gli occhi svegli, tale Jesus, o Gesù, e diventa il suo spin doctor. Il ragionamento che fanno è questo, ed è geniale: nel Libro Sacro, il vecchio testamento, si parla continuamente del futuro avvento di un Messia, che indicherà la Via e la Parola del Signore. Tutti lo aspettano, lui non arriva. Potrebbe essere chiunque, e allora perché non trasformare un imbroglione che si masturba continuamente nel figlio di Dio?

Detto, fatto. I due amici iniziano la loro peregrinazione in Giudea, in Samaria, in Galilea, fino a Gerusalemme, Falconio gli scrive i testi, Gesù li ripete, arruola un folto seguito di discepoli e diventa famoso. I due mettono in scena i miracoli che tutti noi conosciamo (bellissimo il trucco della moltiplicazione dei pani e dei pesci), avallano le leggende che cominciano a diffondersi e, di fatto, costruiscono da zero, con un bel po’ di retorica romana, la figura di Gesù Cristo che ancora oggi conosciamo.

Perché? Per soldi, ovviamente, con Gesù esaltatissimo dalla possibilità di farsi, cito letteralmente, “sbiancare il buco del culo” insieme ai ricchi romani.

Il libro è scritto in prima persona da Gaio Falconio, sotto forma di lettera da spedire a suo nipote. Ma l’umorismo strabordante dalle pagine non è dato dal tono e dallo stile, molto serio e retorico, piuttosto dalle situazioni assurde e parossistiche, che il lettore paragona immediatamente alle storie grevi del catechismo, come se fosse un grande backstage.

Ora, l’idea è una bomba e perfettamente plausibile – di certo non è stato Facebook a inventare la circolazione e diffusione incontrollata di notizie false –, il libro è piacevolissimo da leggere e contiene episodi davvero divertenti, per quanto ovviamente blasfemi.

Ma la sua più grande qualità, come dicevamo prima, è il suo essere un libro sbagliato. Intendiamoci: Tosches non ha sbagliato nella scelta di scriverlo, anzi ha fatto molto bene a smazzarsi anni e anni di studi per riuscire a mettere giù qualcosa di anche lontanamente sensato. Sotto Tiberio è sbagliato nello stesso senso e con lo stesso spirito con cui ci si imbarca in un’impresa impossibile, affascinante e, soprattutto, doverosa. I miti greci e romani sono pieni di storie del genere, e sicuramente non è un caso.

Verso la metà del libro, forse più ai tre quarti, la narrazione un po’ si ammoscia, sembra che l’autore si sia stufato del giochino che ha messo in moto e che tiri via l’ultima parte. Ma non è affatto così. Lui ci ha provato, davvero, con tutta la sua volontà, ma non ci è riuscito, ha perso la presa, il contatto. Non è riuscito a imbrigliare, in un solo libro, in una narrazione lineare, l’archeologia e le stratificazioni millenarie delle leggende e delle storie attorno alla figura di Gesù Cristo, figura che, al netto della fede, rappresenta più un punto di arrivo di una teologia antica che la prima pietra sulla quale costruire una nuova chiesa.

E per forza che non ci è riuscito: è impossibile. Certo, l’idea è ottima, e probabilmente anche l’unico modo sensato per provarci, ma nulla, è una cosa che non si può fare, nemmeno i Vangeli ci sono riusciti. E non tanto per le contraddizioni interne o l’assurdità di certi assunti, quelle vanno bene se srotolate in un universo coerente, quanto piuttosto per l’impossibilità di arginarle. Quelle storie sono come una foce a delta, ramificate, rizomatiche, mentre Tosches si aspettava un estuario, un imbuto attraverso cui travasare i simboli e trasformarli in aneddoti, in storie.

Allo stesso tempo, tuttavia, questo è esattamente il motivo per il quale Sotto Tiberio è un libro non solo bello ma anche significativo, rilevante. Tosches, dicevamo, opera per riduzione di simboli in storie, ma non certo per negarne la potenza quanto, piuttosto, per svelarla, mostrare a tutti come funziona. E come, probabilmente, ha funzionato. Le parabole, i miracoli, le guarigioni, la castità, l’afflizione e le resurrezioni sono semplicemente le storie di due farabutti ubriaconi e segaioli. E questo, proprio questo, le rende universali.

Sotto Tiberio è un libro che ci prova e non ce la fa, ed è nel mancato compimento che si annida la sua importanza: non essere del tutto all’altezza della complessità del mondo, arrancare con grazia, provarci e quasi riuscirci.

E, in fondo, la letteratura sta tutta in quel “quasi”.