Che fine ha fatto la meritocrazia? Fino a qualche anno fa sembrava il metro fondamentale sul quale costruire la nostra società: le scuole dovevano puntare a formare i migliori studenti possibili, l’università doveva eccellere per raggiungere i più alti standard internazionali, persino in politica ci si era ripromessi di selezionare solo i politici più integerrimi e competenti. Poi sembra che il sogno della meritocrazia – che non significa altro che premiare chi fa meglio, chi se lo merita – si sia sgonfiato.
A un certo punto abbiamo iniziato a guardare i più bravi, i più alti in carica, quelli “arrivati” con una circospezione crescente. Si è diffusa una cultura del sospetto sempre più pervasiva, per cui chi ha successo, chi è arrivato a posizioni di prestigio, chi si è guadagnato qualche titolo o qualche risultato in un certo qual modo non merita più una qualsivoglia reverenza, ma piuttosto deve essere guardato con occhio critico, scrutinato, continuamente messo a processo. Al contrario assumono sempre più importanza concezioni della società e del lavoro in cui tutti devono essere uguali, in cui la democrazia è assoluta nel senso di annullamento di ogni gerarchia, di azzeramento delle intermediazioni; uno deve valere uno, sempre e comunque.