Da qualche anno si sta sviluppando una benefica attenzione, almeno nel mondo del business, al tema del fallimento. Il laboratorio di ricerca Google X, che progetta in gran segreto le innovazioni che potranno cambiare radicalmente le nostre vite, da tempo premia i “migliori fallimenti” dei propri dipendenti. Così accade anche al colosso Procter & Gamble con il suo “heroic failure award” e all’italiana Enel con l’iniziativa “Best Failure Award” per riconoscere il valore degli errori e il coraggio delle persone che pubblicamente ne parlano con trasparenza. Tanti sono i vantaggi di una buona tolleranza agli sbagli: secondo Jacob Morgan, di Forbes, in questo modo le aziende riescono ad incoraggiare l’innovazione, migliorare il coinvolgimento e, in ultima analisi, ad essere più efficienti.
Esiste un famoso libro di John C. Maxwell: “Sometimes You Win, Sometimes You Learn”. In sintesi: non sempre si può vincere, ma – quando non accade – è necessario trarne una lezione.
In realtà, nella vita di tutti i giorni, al di là delle dichiarazioni di intenti, è difficile costruire davvero questo spirito di apertura all’errore. Un po’ perché le aziende, soprattutto le grandi, hanno nel loro DNA l’avversione al rischio, un po’ perché la cultura non sempre vede con favore gli obiettivi mancati. Basti pensare allo stigma che accompagna gli imprenditori che hanno fronteggiato rovesci finanziari e che vengono definiti “falliti”, come se la vicenda economica negativa trasferisse in modo diretto le sue ombre sulla persona stessa. Nell’approccio americano, invece, lo startupper che ha alle spalle diversi fallimenti viene, al contrario, riconosciuto come una persona più solida, avendo presumibilmente tratto delle lezioni da tali errori.
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