A salvarli è la scuola? Proprio quella istituzione che, indistintamente, viene messa sotto accusa per qualsiasi male nazionale, rappresenta ancora e comunque una risorsa per i giovani italiani per Sandro Frizziero, autore del romanzo Confessioni di un Neet (Fazi Editore). “Possono contare su un sistema d’istruzione che, nonostante difetti e contraddizioni, riesce ancora a garantire loro un buon livello di preparazione; se così non fosse, non si spiegherebbe la cosiddetta “fuga dei cervelli” formati qui e tanto apprezzati all’estero.
Lo scrittore è anche cautamente ottimista, sulle potenzialità di voglia di modernità e sviluppo che si percepisce soprattutto nelle aree del Paese più svantaggiate: «La rabbia e la frustrazione dei giovani che vivono in un contesto socio-economico non favorevole, potrebbero trasformarsi in energie positive soprattutto considerata la propensione di molti a spostarsi e a fare esperienze all’estero. Infine, i giovani (e i giovanissimi) come potrebbero non essere avvantaggiati negli anni dell’economia digitale?» Per Frizziero gli ostacoli che rendono loro arduo realizzarsi professionalmente, e non solo, sono molteplici. «La difficoltà di accedere al credito per chi vuole tentare la strada del lavoro autonomo e con la sempre maggiore precarietà che diventa ancora più grave con l’aumento dell’età di accesso al lavoro stesso. Anche i servizi al cittadino, penso soprattutto a quelli fondamentali per le giovani madri, spesso non aiutano a pianificare il futuro con la necessaria serenità»L.
Pur con meno giovani del resto dell’Europa, l’Italia risulta il primo paese europeo per numero di Neet, con una percentuale quasi doppia rispetto al resto dell’Europa (24% contro 13%). Come spiega questa peculiarità? E’ colpa del Paese o delle attese dei giovani “in panchina”?
Di certo esistono i giovani “bamboccioni”, mammoni e “choosy”, come anche gli incapaci e gli impreparati. Tuttavia, sono convinto che sia sbagliato tentare di spiegare un fenomeno così complesso generalizzando in questo modo. Anche solo per abbozzare una risposta, bisogna tener conto del forte senso di scoraggiamento presente in alcuni contesti sociali, economici e geografici; delle recenti riforme del mercato del lavoro che, se non in maniera sostanziale, almeno a livello di percezione, non hanno dato alcuna risposta a chi chiedeva più regole e stabilità; della mancanza di serietà (e onestà) di molti datori di lavoro, poco propensi a investire davvero sui giovani. È evidente che, in un contesto simile, molti finiscono per rivolgersi, in maniera più o meno intelligente, al welfare familiare.
E di certo qualche giovane “in panchina” avrà aspettative eccessive, ma se pensiamo che, oltre ad avere meno giovani, abbiamo percentualmente anche meno laureati degli altri paesi europei, è evidente che anche il sistema produttivo non sembra strutturato in modo da valorizzare le competenze dei nostri giovani. Per spiegare dati simili, infine, non si può non considerare il fenomeno del lavoro nero così diffuso in alcune aree del Paese, da alterare le statistiche.
Qual è la ricetta per intercettare e recuperare la fiducia di questi giovani?
La fiducia nel futuro è legata molto a come si percepisce la realtà e la società di oggi. Occorrerebbe, innanzitutto, rispondere adeguatamente alla progressiva (e globale) deregolamentazione del mercato lavoro con una legislazione in grado di garantire, se non altro, una qualche progettualità. Bisogna finirla, insomma, con la demonizzazione del posto fisso che, in fin dei conti, è l’unico che garantisca la stabilità necessaria anche solo per accedere a un mutuo e comprarsi una casa. Troppi giovani si mantengono con “lavoretti” malpagati o sono costretti ad aprirsi improbabili partite Iva pur lavorando, a tutti gli effetti, da dipendenti. Le imprese, poi, dovrebbero recuperare la valenza etica e sociale del lavoro, quindi investire veramente sui giovani e non aspettarsi che arrivino già perfettamente formati dalla scuola, cosa questa non solo sbagliata sul piano degli obiettivi dell’istruzione pubblica, ma anche impossibile da realizzarsi. Insomma, bisogna considerare il lavoro non solo dal punto di vista economico, ma secondo un approccio, potremmo dire, olistico. Così facendo, forse, più di qualche “giovane in panchina” sarà meno scoraggiato.
Uno Stato che non riesce a garantire il lavoro (che non c’è) ma si preoccupa di assicurare il reddito (di cittadinanza) è un Paese che progetta il futuro?
Una misura come il reddito di cittadinanza potrebbe anche essere giudicata favorevolmente, almeno in linea di principio. Sembrano molte, però, le questioni irrisolte che si presentano non appena si pensa alla sua messa in pratica. Come fare in modo che una simile misura non diventi meramente assistenzialista? Come riuscire a far emergere il lavoro nero? Come migliorare l’azione dei centri per l’impiego che non in tutta Italia funzionano come si vorrebbe? Detto ciò, lo Stato dovrebbe primariamente impegnarsi nell’attuare politiche di sviluppo, calibrate sul lungo periodo, attraverso investimenti sulla formazione. Il nostro paese, invece, è il terzultimo in Europa per la spesa dedicata all’istruzione e questo è, a mio avviso, il dato più allarmante.
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