Mezzo milione di morti premature nella sola Unione europea, secondo l’ultima rilevazione dell’Agenzia europea per l’ambiente e le elaborazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). E con un primato assoluto dell’Italia. È questa la dimensione della strage che è, da anni, in corso e che è attribuibile al solo inquinamento atmosferico. Se è vero che il cambiamento climatico può fare danni enormi, la questione ambientale è fatta di una strage che è già in corso ed è un errore politico ridurla al solo riscaldamento globale.
Un morto ogni mille abitanti all’anno, con un aumento del 22% rispetto al 2012 e una concentrazione ancora più forte nelle città che dovevano, da tempo, essere diventate “intelligenti” e che, invece, stupidamente continuano a essere aggrappate a una tecnologia – l’automobile alimentata a combustibile fossile e di proprietà privata – completamente obsoleta. Un morto ogni mille abitanti, ma è l’Italia che conquista la prima posizione in tre delle tragiche classifiche che ordinano i Paesi europei per decessi creati dai tre principali inquinanti: particolato con dimensione inferiore a 2,5 micrometri; biossido di azoto; ozono. Del mezzo milione di morti premature nei 28 Paesi, ottantamila sono in Italia e Milano è – anche per sfortunate circostanze geografiche – l’unica città che è sempre segnalata con il pallino rosso in tutte e tre le mappe che segnalano la frequenza con la quale le centraline segnalano valori superiori a quella soglia oltre la quale per l’Oms c’è un rischio immediato.
Bisognerebbe ricordare sempre questi dati accanto a quelli altrettanto preoccupanti del cambiamento climatico. Per stabilire – una volta e per tutte – che la questione ambientale non è fatta solo di riscaldamento globale. Ma anche di altri pesantissimi danni (ai quali bisognerebbe sommare quelli del rumore, della riduzione della qualità e della quantità dell’acqua, dell’alterazione delle catene alimentari, ..) che l’attività umana scarica sulle donne e sugli uomini. Con un effetto boomerang che ci sta già sottraendo anni di vita (la speranza di vita media in Italia e negli Stati Uniti negli ultimi tre anni ha registrato declini per due anni su tre); tempo che potrebbe dedicare a ciò che più ci piace; ore di lavoro e punti di prodotto interno lordo (se ci fosse ancora qualcuno che ostinatamente continua a pensare che ci sia una scelta possibile tra economia e ambiente); opportunità di innovazione. E aggiungendo costi al sistema sanitario e dolorose ingiustizie (perché a pagare sono, soprattutto, i bambini, gli anziani, le generazioni future).
La questione ambientale non è fatta solo di riscaldamento globale. Ma anche di altri pesantissimi danni che l’attività umana scarica sulle donne e sugli uomini
È indubbio che il clima si sta modificando: basta misurare le calotte artiche per avere il senso di quanta acqua dolce – 100 milioni di piscine olimpioniche all’anno – si sta scaricando negli Oceani. E ancora più fuori discussione è che ciò è determinato dalla capacità, straordinaria e pericolosa, che l’uomo ha di modificare il proprio ambiente: basta osservare la Terra da un aereo per rendersene conto. Il cambiamento climatico ha, poi, una capacità comunicativa unica: è la questione che, più di ogni altra, attraversa i confini e le generazioni, ricordando ad un’umanità diventata totalmente concentrata sul proprio presente e salotto di casa, che, invece, facciamo parte di uno spazio e di un tempo assai più larghi.
E, tuttavia, parlare solo di clima comporta tre gravi rischi. Il primo problema è di ordine concettuale. Parlare solo di clima può portarci a fare scelte insufficienti. A concentrarci troppo sulle emissioni di anidride carbonica (molto legate alle attività produttive) e troppo poco su quelle di polveri sottili (fortemente determinate da scelte di consumo individuale e alle automobili). Sui sintomi (c’è già chi parla di raffreddare il clima in maniera artificiale laddove ciò ci priverebbe, peraltro, del fattore che più ci motiva a cercare un altro modello di produzione e consumo) più che sulle cause. E a sottovalutare quanto le singole comunità (come hanno capito a Milano) possano fare dichiarando, ad esempio, guerra alle automobili alimentate con combustibili fossili e di proprietà privata.
Il secondo rischio è politico. Far percepire i danni che l’ambiente produce come qualcosa che colpirà le generazioni future ma che non necessariamente ci rovinerà la salute oggi, può ridurre la battaglia per l’ambiente a uno scontro ideologico tra chi può permettersi di preoccuparsi di futuro e chi è costretto a vivere di presente. Più efficace è, invece, dire con forza che stiamo già pagando costi enormi.
Infine, c’è il rischio più forte: quello del dogmatismo (soprattutto quello accademico) che fa sempre male. È vero che stiamo manipolando un meccanismo delicato e fondamentale; ma ciò non toglie che gli effetti dell’anidride carbonica sul clima, nonché quelli del clima sulla civiltà umana e sulla natura presentano, per definizione, elementi di incertezza e che sono differenziati. È vero che New York potrebbe finire sott’acqua e già lo fa per effetto dei tifoni di cui sta aumentano frequenza e intensità; ma onestà intellettuale impone di dire, anche, che la Russia sta beneficiando di uno scongelamento della Siberia.
Il più grande merito del cambiamento climatico è che è un formidabile vettore comunicativo di una questione molto più vasta. È il tempo di collegare a questo argomento potente una narrazione e una proposta molto più articolata e legata alla quotidianità di ognuno.