Pubblichiamo un estratto del libro di Johan Rockström e Anders Wijkman “Natura in bancarotta – perché rispettare i confini del pianeta”, rapporto al Club di Roma, edizione italiana a cura di Gianfranco Bologna, edizioni ambiente
La svezia è un esempio per le politiche sul clima?
Per decenni la politica ambientale si è focalizzata sulle fonti di emissioni inquinanti, come le attività manifatturiere o la produzione di energia. Più recentemente l’attenzione è stata indirizzata verso le forme di “inquinamento diffuso”, i consumi o gli stili di vita. La ragione è ovvia. Alla fase di produzione di un bene può essere attribuita solo una parte dell’impatto ambientale, e spesso si tratta di una parte minore. Per molti prodotti, come le automobili, gli impatti maggiori avvengono mentre sono in uso.
The Natural Step – il network creato dall’oncologo Karl-Henrik Robert per la ricerca e la promozione nel campo dello sviluppo sostenibile – ha definito il problema della società dei consumi come segue: “Nulla scompare. Tutto si diffonde”. Ciò che si vuole mettere in evidenza è il fatto che la materia è indistruttibile, che è esposta costantemente a impatti e cambiamenti e che, presto o tardi, le molecole di cui è costituita diventano scarti. Il carburante che diviene gas di scarico o calore ne è un buon esempio, così come il metallo che arrugginisce.
L’importanza del ruolo di consumi e stili di vita è del tutto ovvia quando si parla di cambiamento climatico. Le emissioni causate dalla produzione di energia elettrica e dalla produzione dei più diversi beni e servizi hanno un impatto rilevante. Ma un corrispondente impatto rilevante – e crescente – è legato all’utilizzo che di tali beni e servizi si fa, con particolare riferimento ai trasporti, i viaggi, il turismo, l’abitare e il consumo di qualsiasi cosa, dal cibo ai veicoli, ai computer e agli elettrodomestici.
Le statistiche ufficiali riflettono solo in parte la realtà
La contabilità ufficiale in merito all’impatto climatico della Svezia restituisce solo un’immagine parziale. Le statistiche sono basate sulle emissioni interne di gas serra, ossia quelle che avvengono entro una data nazione, ma non tengono conto delle emissioni incorporate nei prodotti importati.
La metodologia svedese per calcolare la propria impronta di carbonio non è diversa da quella di altre nazioni. La contabilità è riferita alle emissioni che fisicamente avvengono in ogni singolo Paese, in parte anche perché calcolare il contenuto di CO2 del consumo di beni e servizi è molto più difficile. Mentre è facile calcolare quanta CO2 viene generata nel produrre una tonnellata di acciaio o un chilo di plastica, è molto più difficile calcolare l’ammontare di CO2 che risulta dalla produzione di oggetti complessi come un’automobile, un frigorifero o un computer.
La ricerca sta progredendo in molti ambiti e i dati sulla CO2 per un crescente numero di prodotti diventano via via disponibili. Ma le statistiche ufficiali probabilmente continueranno a basarsi ancora a lungo soprattutto sulle emissioni interne generate dall’industria, la produzione di energia, l’agricoltura, la gestione dei rifiuti, l’uso del suolo ecc.
Ma il fatto che la contabilità ufficiale sia focalizzata sulle emissioni che avvengono all’interno di una data nazione, non può essere una ragione valida per ignorare l’impatto delle importazioni. Al contrario. Formalmente, una nazione come la Svezia ha un livello di emissioni pro capite pari a circa sei tonnellate di CO2/anno. Ma se includiamo in questa contabilità i flussi commerciali, l’impronta di carbonio svedese cresce di diverse tonnellate a persona.
La contabilità è riferita alle emissioni che fisicamente avvengono in ogni singolo Paese. Ma questa non può essere una ragione valida per ignorare l’impatto delle importazioni
La CO2 legata alle importazioni sta crescendo rapidamente
La Svezia appartiene a un ristretto gruppo di nazioni le cui importazioni sono ad alta intensità di CO2. In alcuni paesi ricchi, più del 30% della CO2 è “incorporato” nei consumi derivanti da beni di importazione (secondo Davis e Caldeira, 2010). Per altre nazioni, come la Cina, la situazione è esattamente opposta. Le stime indicano che una quota tra il 25 e il 30% delle emissioni della Cina sono attribuibili alle merci esportate, prevalentemente verso Stati Uniti e Ue.
Nel caso della Svezia, l’impatto sul clima che deriva dalle merci d’importazione è cresciuto in modo particolarmente veloce. Secondo un rapporto del Nordic Council (novembre 2010), il contenuto di CO2 derivante dalle importazioni verso la Svezia costituisce oltre il 90% dell’ammontare complessivo delle emissioni nazionali. Le importazioni dall’Asia sono in crescita rapida: quelle dalla Cina, ad esempio, aumentano del 23% l’anno, per un assortimento di merci anch’esso in veloce ampliamento e che include automobili, elettronica, carne e abiti.
Ora, che una quota di consumi che cresce così velocemente in molti paesi, oltre alla Svezia, viene soddisfatta dalle importazioni, dovrebbe essere ovvio farne oggetto di discussione quando si parla di cambiamento climatico. Invece, sembra che la grande maggioranza dei politici e dei governi abbia scelto di evitare il tema. I consumi e gli stili di vita sono temi raramente toccati dai partiti politici e sono naturalmente visti come “politicamente sensibili”.
Facciamo un’ipotesi: supponiamo che la Svezia voglia cessare totalmente la produzione di carne e decida di importarne l’intero fabbisogno dalla Danimarca. Un passo simile ridurrebbe in modo significativo le emissioni di CO2 e metano. Nei report ufficiali alle Nazioni Unite si potrebbe vantare una riduzione delle emissioni nazionali, ma il contenuto di carbonio dei nostri consumi di carne rimarrebbe il medesimo. E sarebbe grottesco, per non dire di peggio, che smettessimo di sentirci responsabili per queste emissioni solo perché sono materialmente prodotte in Danimarca.
Cina, la “nuova fabbrica” del mondo
L’intera discussione sui consumi e sugli stili di vita deve svolgersi secondo una prospettiva internazionale. L’economia è sempre più globalizzata e le responsabilità per gli impatti sul clima non possono essere limitate a ciò che avviene entro i confini nazionali.
Oggi, le nazioni in crescita producono una quota sempre più ampia delle merci in circolazione nel mondo. Ci si riferisce spesso alla Cina come alla “nuova fabbrica” del mondo: le condizioni sociali e ambientali in queste nuove nazioni industriali devono essere responsabilità anche nostra.
La sempre maggiore importanza specialmente della Cina come paese produttore di una parte sempre più ampia dei nostri beni di consumo ha almeno due conseguenze. La prima è che le emissioni di carbonio avvengono al di fuori delle nazioni industrializzate. La seconda è che i costi di produzione, che in Cina sono molto più bassi, permettono prezzi contenuti delle commodity in Ue e Stati Uniti, con il risultato che le persone che vivono nelle nazioni industrializzate possono comprare sempre più prodotti made in Cina. In alternativa, questo surplus può essere usato per l’acquisto di altri beni o per viaggiare. Il risultato comunque non cambia, e i consumi crescono, assieme alle emissioni di CO2.
Tra il 2000 e il 2008, le emissioni svedesi totali di carbonio – se misurate attraverso i consumi – sono cresciute del 9%
Nel passato, quando la popolazione mondiale era minore e il prodotto dell’economia era una frazione di quello attuale, c’era minore necessità di misurare l’impatto del commercio globale. L’impronta globale delle nazioni industrializzate era limitata. Oggi non è più così. Mentre la maggior parte delle emissioni interne in un paese come la Svezia è di gran lunga minore oggi di cinquant’anni fa, il nostro contributo al carico ambientale globale è ampio e in crescita. L’impatto sul clima ne è un esempio, la nostra parte nell’eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche e nella deforestazione delle aree tropicali ne sono altri. Le crescenti importazioni da paesi come Cina e India – con i danni all’ambiente a l’impatto sul clima connessi – sono un ulteriore esempio. I calcoli mostrano che se tutti gli abitanti del mondo avessero gli stessi modelli di consumo dello svedese o dell’americano medio, ci servirebbero nel lungo termine da tre a cinque pianeti per soddisfarli e per assorbire la connessa produzione di rifiuti. La conclusione è che dobbiamo radicalmente cambiare rotta per fare sì che economia ed ecologia lavorino assieme e in sincronia.
La relazione tra crescita e cambiamento climatico si conferma
Torniamo al cambiamento climatico. L’impatto sul clima della Svezia è diventato un tema di rilievo in vista della conferenza sul clima di Copenaghen, nel 2009. Tanto il Primo Ministro Reinfeldt, quanto il Ministro dell’Ambiente Carlgren, hanno girato il mondo prima del meeting, durante il semestre di presidenza svedese della Ue, presentando la Svezia come una specie di campione del mondo in materia di politiche sul clima. Nel 2009 il messaggio era che l’economia svedese dal 1990 era cresciuta di quasi il 50%, riducendo contemporaneamente le emissioni di oltre il 9%. Con ciò si voleva dimostrare soprattutto che è possibile combinare una rapida crescita con ridotti impatti ambientali. Se tutta la CO2 incorporata nei beni importati in Svezia fosse stata messa in conto, l’immagine sarebbe risultata molto diversa. Il 9% di riduzione nelle emissioni, se rapportato all’anno di riferimento della convenzione sul clima, il 1990, sarebbe risultato essere invece un aumento di più del 10%, secondo le stime dello Stockholm Environment Institute.
Un più recente rapporto (marzo 2012) dell’Agenzia ambientale svedese ha indicato che le emissioni di carbonio prodotte all’estero – attribuite alle importazioni di merci verso la Svezia – sono cresciute del 30% tra il 2000 e il 2008. Allo stesso tempo, le emissioni interne di carbonio sono diminuite del 13%. Ciò significa che in totale le emissioni svedesi di carbonio – se misurate attraverso i consumi – sono cresciute del 9% in quel periodo. In termini di volume si tratta di un aumento da 90 milioni a 98 milioni di tonnellate di CO2. Analisi simili, incluse quelle realizzate per la Gran Bretagna, arrivano alle stesse conclusioni: le emissioni di carbonio sono costantemente aumentate, se si includono le importazioni di merci da altre nazioni.
Per noi autori è naturale porre particolare attenzione nell’analizzare le politiche e le performance della Svezia. Il governo svedese ovviamente è al corrente dei limiti delle stime ufficiali che riguardano le emissioni di gas serra, ma comunque si è fatto consapevolmente uno sforzo per presentare il paese nella migliore luce possibile. Il messaggio che si è voluto trasmettere è che una rapida crescita economica si può conciliare con una riduzione delle emissioni di carbonio. Ma la realtà non è così semplice. Il fatto che tante persone, in Svezia come all’estero, abbiano preso a cuore questo messaggio, non migliora le cose. Stimolare in questo modo l’opinione pubblica serve solo a confondere e fuorviare. Se vogliamo essere seri nel parlare di riduzione della nostra impronta di carbonio, allora dobbiamo tenere conto anche delle importazioni di beni e proporre misure di riduzione degli impatti anche in quest’area.
Detto ciò, non vogliamo sminuire l’importanza delle costruttive misure adottate in Svezia con l’obiettivo di ridurre le emissioni di CO2 sul territorio nazionale. La tassa imposta sulla CO2 nel 1991 ha avuto un considerevole effetto, in particolare sul settore delle abitazioni dove i combustibili fossili sono stati gradualmente dismessi e sostituiti dalle biomasse.
Attualmente il patrimonio abitativo è titolare solo del 5% delle emissioni totali di CO2. Il dato corrispondente a livello europeo è tra il 30 e il 40%. Ma a dispetto delle diverse misure adottate rimane il fatto che le emissioni totali di carbonio della Svezia, dal 1990 a oggi, sono cresciute, non diminuite come le statistiche ufficiali pretendono. E non vale nulla in tale contesto il fatto che le emissioni interne di carbonio, diminuite durante gli anni che hanno preceduto il summit di Copenaghen, hanno mostrato un incremento superiore al 5% nel 2010. Tutto questo dimostra le difficoltà che si incontrano quando si cerca di svincolare la crescita dall’impatto sul clima. Ciò non fa che rafforzare la nostra idea che lo sviluppo sostenibile si possa raggiungere solamente attraverso una profonda revisione del modello economico che si è adottato da lungo tempo.