Geografia dell’innovazione: ecco perché le città più ricche (e care) sono anche le più creative

Da qualche anno i super ricchi del mondo investono nell’acquisto di immobili nelle grandi città. Che sono anche l’habitat naturale di startup e artisti: questo connubio offre dosi di creatività e progresso massimi. Se c’è una sfida per il futuro, sarà quella di ridurre le disuguaglianze

Photo by Luca Bravo on Unsplash

Richard Florida è direttore del Martin Prosperity Institute, professore di Business and Creativity alla Rotman School of Management dell’University of Toronto e, soprattutto, è l’autore di due saggi molti interessanti. Il primo, del 2002, intitolato The Rise of the Creative Class, e il secondo, del 2017, tema di questa riflessione, The New Urban Crisis (How Our Cities Are Increasing Inequality, Deepening Segregation, and Failing the Middle Class-and What We Can Do About It).

La sua «fotografia» di partenza appartiene probabilmente a tutti i frequentatori seriali delle grandi capitali planetarie, almeno ai più sensibili e attenti o a quelli che ancora ascoltano le parole dei tassisti. Dice infatti che ogni volta che ha visitato Londra, attraversandola dall’aeroporto ad Hyde Park e viceversa, i tassisti ripetono sempre la stessa litania. «Lo vede quell’edificio?» indicando una moderna torre di vetro accanto al Mandarin Oriental. «Alcuni appartamenti costano anche più di 50 milioni di sterline. E nessuno ci vive perché è sempre tutto buio».

La questione è legata all’élite dei super-ricchi mondiali che, di fatto, grazie ai loro patrimoni sterminati, hanno «invaso» le zone più prestigiose di Londra, New York e Parigi. Per una plutocrazia che non riguarda solo i nuovi grandi, strapotenti tycoon della new economy e delle nuove tecnologie ma arriva fino agli attori di Hollywood, ai grandi campioni dello sport e ad artisti e cantanti, che spesso, ironia della sorte, hanno costruito la loro carriera raccontando i tormenti dei giorni con gli affitti a buon mercato, le bevande a basso costo e il nirvana creativo dirompente, mentre oggi frequentano solo questi luoghi ultra-esclusivi (boutique del lusso comprese). Luoghi che il cantante e musicista David Byrne ha ben sintetizzato chiamandoli «cupole di piacere per i ricchi».

Va detto che lo spazio urbano e il suo ecosistema creativo, nelle grandi capitali del mondo occidentale, da decenni vive un continuo equilibrio precario, alimentato anche da artisti, musicisti e altri creativi che, come negli anni Settanta e Ottanta, hanno contribuito a trasformare quartieri malandati in zone poi diventate alla moda. Inevitabilmente – basti pensare a New York City con SoHo, East Village, TriBeCa, NoLIta, Hell’s Kitchen e Brooklyn Dumbo – è un fenomeno che dal fermento passa alla sterilità. Ma ciò non significa che intere città siano diventate a creatività zero. Difatti, secondo Richard Florida, nonostante l’afflusso di gente super-ricca in questi nuclei urbani, non vi è alcuna prova di una sostanziale diminuzione delle capacità creative complessive delle città in questione. Anzi, la creatività si muove da un quartiere all’altro. E, nel tempo, la trasformazione in corso può veramente mettere in pericolo l’impulso creativo generale, ma ciò non è ancora accaduto.

Le aree urbane offrono chiari vantaggi, come la grande diversità di ingegni che producono energia creativa e vivacità culturale, ma anche una logistica fatta di fabbricati industriali e magazzini con spazi di lavoro flessibili e riconfigurabili

Entriamo nello specifico. I super-ricchi globali non stanno realmente comprando «case» nel senso convenzionale del termine, ossia per viverci, utilizzarle e farci crescere le loro famiglie. Stanno semplicemente diversificando i loro investimenti, parcheggiando in luoghi più sicuri di altri i loro soldi. In questo senso, New York e Londra hanno un’altissima concentrazione di persone ricchissime. New York conta più di 100 miliardari in dollari e Londra ne ha più di 50. Ma il super ricco danneggia davvero le grandi città? No, risponde Florida, semplicemente non ci sono abbastanza super-ricchi per uccidere un’intera città e nemmeno parti importanti di essa. New York City, dopo tutto, ha più di otto milioni di abitanti e circa tre milioni di unità abitative mentre i suoi multi-milionari non riempiono nemmeno la metà delle poltrone del Radio City Music Hall.

Anche perché, come detto, lo spazio urbano e il suo ecosistema è in continuo movimento e insieme all’incursione plutocratica dei miliardari che stanno trasformando molte delle grandi città del mondo, vi è anche un numero sempre più elevato di startupper e capitani d’impresa che, parallelamente, nelle stesse città, stanno creando fermento nei sobborghi, probabilmente dando vita alle SoHo di domani.

I fenomeni storicizzati lo confermano. Basti pensare alle principali aziende ad alta tecnologia degli anni Settanta, Ottanta, Novanta e persino dei primi anni Duemila, come Intel, Apple e Google. Tutte erano dislocate nei campus della Silicon Valley; la sede di Microsoft era nel sobborgo di Redmond; altre compagnie high-tech erano raggruppate lungo la Route 128, fuori Boston, nei sobborghi di Austin o nella Carolina del Nord. Oggi quella geografia è cambiata notevolmente perché le startup innovative e le società di venture capital si sono urbanizzate, con San Francisco che supera la Silicon Valley come numero di startup finanziate da venture capital. E altissima è anche la concentrazione a Lower Manhattan, a New York City. Questo perché le aree urbane offrono chiari vantaggi, come la grande diversità di ingegni che producono energia creativa e vivacità culturale, ma anche una logistica fatta di fabbricati industriali e magazzini con spazi di lavoro flessibili e riconfigurabili. Mentre i colossi – Microsoft, Apple e Facebook per citarne alcuni – necessitano di fabbricati enormi e quindi devono restare nelle periferie, le startup che alimentano l’innovazione trovano il loro habitat perfetto nelle grandi città. Si pensi ai settori di media digitali, social media, giochi e app creative. Che proprio nelle aree urbane più creative trovano team di designer, compositori, sceneggiatori, musicisti e copywriter.

Musicisti e cantanti a New York rappresentano tre volte la media nazionale. Due volte quella di Los Angeles

Questo fenomeno ha sicuramente fatto alzare i prezzi al metro quadro in città come San Francisco, New York, Boston e Seattle. Tuttavia, per l’autore di The New Urban Crisis, le connessioni tra disuguaglianza economica e crescita della tecnologia urbana sono difficili da verificare perché la presenza di startup e di venture capital porta parallelamente aumento del costo della vita ma anche innovazione, crescita economica e posti di lavoro per tutta la filiera.

Sta di fatto che la concentrazione di industrie creative e relativi posti di lavoro in città come New York e Los Angeles resta primaria. La concentrazione artistico-creativa a Los Angeles è tre volte superiore alla media Usa (e quattro volte superiore alla media nazionale quella di artisti, pittori e scultori), mentre quella a New York è doppia. Musicisti e cantanti a New York rappresentano tre volte la media nazionale. Due volte quella di Los Angeles. Ed entrambe le metropoli hanno più di tre volte la media nazionale per scrittori e autori. Addirittura la concentrazione di stilisti di New York è dieci volte superiore alla media nazionale, mentre quella di LA è quasi otto volte superiore.

Ma, fuori dai numeri e dai paradossi della ultra-ricchezza, Richard Florida si pone una domanda dalla risposta scontata. Qualcuno vuole veramente scambiare le odierne economie di New York o Los Angeles con la loro situazione economica negli anni Settanta o Ottanta? La risposta, appunto, è ovvia. L’alta tecnologia unità alle forze tradizionali di queste città, come la creatività artistica, ha reso indubbiamente più forti le loro economie. Resta però un enorme problema. Il divario sempre più ampio tra élite o professionisti altamente specializzati in vari ambiti, e la normale forza lavoro o i veri poveri, sempre più spostati ai margini. E il modo per aiutarli non è quello di osteggiare la creazione di ricchezza, ma di rendere più ampie e inclusive le economie fiorenti dei grandi ecosistemi urbani.

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