La frase del momento è «Non abbiamo paura del voto». La dicono tutti salendo alle consultazioni al Quirinale, destra, sinistra, Cinque Stelle e ovviamente Matteo Salvini che del voto anticipato è lo sponsor apparentemente più deciso (in realtà un Conte-bis gli sarebbe andato benissimo): un mantra, una giaculatoria o forse un esorcismo. «Non abbiamo paura del voto» per farsi coraggio e per nascondere l’ovvio dato di realtà, e cioè che del voto hanno paura tutti, anche quelli che minacciano mobilitazioni di piazza per pretenderlo, perché arrivati alla dodicesima campagna elettorale in 14 mesi (Politiche, europee più nove campagne regionali vissute tutte come decisivi test nazionali) nessuno sa più come gli italiani potrebbero reagire, chi potrebbero premiare, chi condannare a morte.
La possibile campagna elettorale d’autunno può essere immaginata fin da ora nei suoi tratti essenziali. Sarà un corpo a corpo, un’ordalia, oltreché la solita festa delle promesse deliranti. La Lega ha già cominciato a scrivere le cambiali da sventolare davanti agli elettori: 50 miliardi tra tagli di tasse, investimenti e grandi opere per la manovra di fine anno, che calcolando anche la questioncella dell’Iva potrebbe così arrivare alla cifra record di 73 miliardi. I vincoli di bilancio? Chissenefrega. L’Unione tornerà ad essere il Grande Satana della propaganda leghista. Matteo Salvini ha aperto il fuoco fin dal suo intervento di martedì in Senato – «Francia e Germania se ne fregano delle regole con cui stanno rovinando un popolo di 60 milioni di persone» – e ha restituito mano libera al suo luogotenente anti-euro Claudio Borghi, che ieri ha rilanciato l’idea di un’uscita dall’euro addirittura per motivi “di sicurezza nazionale”. Poi, come è ovvio, ci saranno i temi Law&Order. Se “Ruspe” e “Pacchia finita” sono stati gli slogan 2018, non osiamo immaginare quelli 2019. Tabula rasa, napalm, kaputt.
Forse a tremare più di tutti saranno gli italiani, condannati all’ennesima tempesta di parole senza costrutto
Il copione sul versante opposto è già scritto. Fascismo. Rischio democratico. Deriva autoritaria. Avremo nuove copertine dell’Espresso con Salvini in fez e stivaloni. La polizia morale della rete riverserà sui social le qutidiane malefatte di sconosciuti e squinternati amministratori locali che si improvvisano sceriffi contro i barboni, gli immigrati, le donne senza reggiseno, e a chiunque cerchi cinque minuti di visibilità basterà dire la stupidata del giorno contro il fruttarolo egiziano all’angolo per vedersi consacrato a soggetto di dibattito politico. Sui soldi il Pd parlerà poco. Sull’immigrazione pure. Difenderà l’Europa come al solito, dicendo che va cambiata, ma il gettone principale della campagna lo punterà sul pericolo dell’Uomo Nero, un riflesso pavloviano dal quale non riesce a liberarsi anche dopo aver verificato in tante occasioni la sua inefficacia.
Per i grillini la sceneggiatura è altrettanto scontata. La candidatura di Giuseppe Conte a premier sarà il jolly da giocare nel caso di un voto a breve termine, ma certo non si potranno galvanizzare gli elettori con i discorsi sui laboratori dell’apprendimento o sullo sfruttamento dell’energia dei moti ondosi. Si dovrà trovare un bersaglio ed è abbastanza ovvio che sarà “il ritorno delle destre”, dei vecchi poteri, insomma “dei ladri” secondo la consueta semplificazione grillina. Sventolare davanti al popolo sovrano il drappo rosso di un governo Salvini-Berlusconi-Meloni, o addirittura di un Nazareno 2.0 per dire: solo noi vi possiamo garantire dal ritorno del malaffare.
Quanto ai più piccoli, faticheranno a trovare spazio. Forza Italia, senza l’accordo con la Lega – che ha tutte le convenienze a correre da sola – rischia l’estinzione. Fratelli d’Italia farà il suo, ma sarà assai faticoso scavalcare a destra il Capitano scatenato. Il probabile partito di Matteo Renzi difficilmente risulterà protagonista di una campagna monopolizzata dagli estremismi. Anche loro oggi partecipano al coro del “Non abbiamo paura del voto” ma sono quelli che tremeranno più di tutti se il fatidico scioglimento delle Camere sarà decretato. O forse no. Forse a tremare più di tutti saranno gli italiani, condannati all’ennesima tempesta di parole senza costrutto e forse a una nuova e indecifrabile avventura perché, come insegna l’esperienza del 2018, una cosa è il voto e una cosa sono le alleanze di governo che si fanno dopo.