L’atto primo della crisi si reciterà oggi in Senato e vedrà la formalizzazione di due schieramenti contrapposti: il fronte del “voto subito” (Lega, FI, Fdi) che chiede la convocazione del premier Giuseppe Conte in aula per domani, e il fronte del “niente fretta” (M5S, Pd, Leu) che ha scelto la data del 20. I numeri sono molto chiari: vinceranno i secondi. E non c’è dubbio che la dimostrazione dell’esistenza di una maggioranza alternativa ai desiderata di Matteo Salvini favorirà i ragionamenti ostili alle elezioni anticipate e favorevoli alla ricerca di soluzioni di governo diverse. Insomma, la guerra-lampo che il leader della Lega immaginava è già impantanata nelle sabbie mobili di troppi fattori non considerati.
Le elezioni all’inizio di novembre restano uno scenario concreto, ma in nessun caso saranno la solitaria marcia trionfale descritta dai vecchi sondaggi e dal coro di incitazioni a rompere che il Nord ha riversato sul vice premier. La prima prova di forza – quella sul calendario – è già persa e rischia di rivelarsi un vero boomerang, al punto che non si capisce per quali motivi sia stata intentata. Ma a Salvini toccherà anche passare sotto le forche caudine di Silvio Berlusconi, che fa trapelare la notizia di un imminente incontro a Palazzo Grazioli – metaforica Canossa del momento – per definire un patto di coalizione da firmare subito, altrimenti il Cavaliere si terrà le mani libere. Bisognerà quindi rimangiarsi la determinazione a correre da soli esibita in tante piazze e in tante interviste e archiviare il progetto di assorbimento di Forza Italia chiaramente perseguito nell’ultimo anno. Infine, si dovrà convincere il Quirinale che il Paese può permettersi il rischio dell’esercizio provvisorio e di un governo che si insedierebbe in zona Cesarini per la manovra.
È un percorso a ostacoli estremamente impervio e probabilmente non previsto, che avvolge di nebbia la retorica del “datemi i pieni poteri” esibita fino a due giorni fa dal ministro dell’Interno
Persino la campagna elettorale si è tinta di incertezza dopo i pessimi segnali ricevuti nel beach tour del Capitano al Sud, che sarà arbitro assoluto dei risultati (così come lo è stato nel 2018) e teme la demolizione di una misura largamente popolare come il reddito di cittadinanza, sicuramente incompatibile col nuovo corso salviniano, e più oltre un rilancio dell’autonomia differenziata con la dimostrata penalizzazione delle regioni meridionali. L’emergenza emigrazione “non tira più” come una volta. Nessuno immagina che possa essere ancora elemento prioritario per le scelte del corpo elettorale.
È un percorso a ostacoli estremamente impervio e probabilmente non previsto, che avvolge di nebbia la retorica del “datemi i pieni poteri” esibita fino a due giorni fa dal ministro dell’Interno. E il futuro di questo percorso, la possibilità di imboccarlo e di uscirne vincitore, è paradossalmente nelle mani del “nemico principale” della Lega, il Pd: saranno soprattutto le scelte di Nicola Zingaretti a decidere sulle sorti della legislatura, sulla necessità di interromperla o sulla opportunità di tentare la strada di un nuovo governo per portarla a termine. Il voto di oggi in Senato – tutt’altro che un adempimento tecnico – renderà molto chiaro questo bivio, con le relative responsabilità, e darà finalmente un punto fermo e pubblico a questa indecifrabile crisi d’agosto.