Come tutti gli anni l’aumento dell’IVA, previsto da una clausola della Legge di Bilancio a garanzia dei conti pubblici, diventa uno dei tormentoni della discussione politica per le proccupazioni rispetto ai rischi per le famiglie e le imprese. Quest’anno la cifra da individuare per scongiurarne gli effetti è di ben 23 miliardi di euro, la più alta da quando il meccanismo fu introdotto per la prima volta dal Governo Berlusconi.
Ma quest’anno il tema assume un significato politico più importante, legato non solo alla crisi di governo ma alla discussione in corso sui punti di un possibile accordo di governo tra PD e 5 Stelle, perché potrebbe diventare la prima occasione per verificare quanto siano reali gli impegni su sostenibilità ambientale e equità sociale fatte negli scorsi giorni da Zingaretti e Di Maio.
L’imposta sul valore aggiunto di beni e servizi presenta infatti alcuni evidenti problemi che non possono essere più rinviati. Il primo è dovuto all’enorme evasione fiscale, stimata in 35,7 miliardi di euro con un infelice primato europeo. Il secondo problema si evidenzia rispetto agli obiettivi ambientali e climatici su cui il nostro Paese è impegnato, per le contraddizioni di una imposta che non distingue tra filiere e produzioni da economia circolare, agricoltura biologica, da fonti rinnovabili o invece che determinano un impatto molto più rilevante in termini climatici, inquinamento e consumo di risorse.
In altri Paesi europei questa strada è stata già intrapresa, come in Francia dove l’aliquota è stata ridotta per la plastica proveniente dal riciclo o in Svezia dove viene premiata la riparazione di beni come indumenti, bici, elettrodomestici. La ragione è ambientale ma al contempo di spinta alla nascita di imprese nel settore delle riparazioni nel Paese. D’altronde non si comprende perché debbano essere sottoposti alla stessa aliquota un prodotto proveniente dal riciclo o da una riparazione e uno che ha percorso migliaia di chilometri ed è stato realizzato consumando materie prime ed energia.
L’imposta non distingue tra filiere e produzioni da economia circolare, agricoltura biologica, da fonti rinnovabili o da quelle che, al contrario, determinano un impatto molto più rilevante in termini climatici, inquinamento e consumo di risorse
La commissione europea consente ai Paesi di introdurre aliquote diverse – per cui in ogni Stato troviamo un’ampia articolazione tra una aliquota minima ed una massima, da noi al 4 e 22% – se correttamente motivate. Il problema italiano è che oramai non si comprende più il senso di una articolazione frutto di interventi che si sono susseguiti nel tempo, ultimo quello approvato sulla base di un emendamento della Lega per ridurre le aliquote per tutti i prodotti a base di tartufo.
Ne ha scritto Tito Boeri su Repubblica, avviando una riflessione sugli obiettivi che dovrebbe avere un intervento sull’IVA che non si può limitare alle clausole. E se davvero partirà un governo sulla base di quei punti promessi questa sfida non potrà essere rinviata, al contrario si potrebbe intervenire da subito con la legge di bilancio 2020 per cancellare evidenti assurdità non solo di tipo ambientale.
Come una discriminazione che potremmo definire sociale e di genere, per cui a differenza di tutti i beni di largo consumo l’IVA sugli assorbenti è quella massima. Oppure quella che interessa la salute di tante persone, per cui sul latte di origine vegetale, di largo uso per via delle crescenti intolleranze alimentari, pesa un’aliquota al 22% a differenza del latte di origine animale che beneficia di un aliquota minima. O per parlare di fonti rinnovabili e invece fossili, il pellet di legno utilizzato negli impianti di riscaldamento nel nostro Paese è sottoposto all’aliquota più alta d’Europa e più che doppia di quella applicata al gas metano per uso domestico. Quando il pellet oggi può avere una certificazione territoriale che ne motiverebbe un trattamento di favore e che rappresenterebbe un incentivo a investire in una corretta gestione dei boschi nel nostro Paese.
In parallelo con questi interventi si potrebbe aprire il cantiere di una riforma della fiscalità che sia sempre incardinata su questi due pilastri: lotta all’evasione fiscale e sostenibilità ambientale e sociale. Un percorso che passa per la semplificazione del sistema, i controlli, la trasparenza dei criteri per cui beni e servizi debbano avere aliquote differenti. Attenzione, non è una questione per tecnici ma un percorso politico, che può consentire di parlare a cittadini sempre più consapevoli del valore di queste sfidee di raccontare quale percorso di sviluppo nei prossimi anni il nostro Paese ha scelto di intraprendere. Siamo del resto a un passaggio cruciale, in un momento difficile per l’economia in cui occorre dare forza a quel cambiamento avviato in questi anni da tante imprese cresciute scommettendo sulla qualità e sull’innovazione ambientale, sulle filiere dell’economia circolare e di territorio. Qualunque sarà l’esito della crisi politica, questi temi non potranno uscire dall’agenda del cambiamento di cui il Paese ha bisogno.