Dai gialloverdi ai giallorossi?Zingaretti torna al centro della scena: ora i giochi del Pd di governo li fa lui

Zingaretti con la dichiarazione di ieri si è ripreso la scena, sottraendola a Renzi. Per lui c'è una figura su tutte che non può essere confermata nel suo ruolo, quella di Giuseppe Conte

MIGUEL MEDINA / AFP

“E’ il momento di dare forza a Nicola, se spacchiamo il Pd il nostro tentativo verrà del tutto vanificato”. E’ con queste parole che Matteo Renzi ha dato il via libera ai suoi per votare a favore della relazione con cui Zingaretti ha introdotto la Direzione dem e tracciato la linea di quello che sarà l’atteggiamento del Pd in sede di consultazioni e di conseguente trattativa per la formazione di un nuovo governo.

C’era grande attesa per la riunione del parlamentino del Pd, tornato ad essere il perno centrale di un’eventuale nuova maggioranza. A chi pensava che il partito si sarebbe potuto spaccare, i dem hanno risposto con un’inedita e sbandierata unità. Un’unità che, per una volta, non sembra di facciata, ma che, in questo momento conviene a tutti. Al segretario, in primis, accusato negli scorsi giorni di subire l’iniziativa del suo ingombrante predecessore. E allo stesso Renzi, che senza il sostegno di tutto il Pd non avrebbe alcuna speranza di vedere il suo disegno portato a compimento.

Zingaretti si riprende dunque la scena, con due mosse importanti e ben calibrate. La prima consiste nell’elenco dei cinque punti programmatici su cui il Pd è disposto a ragionare per formare un “governo della svolta”. Cinque punti non casuali, tutt’altro che scontati, che impegnerebbero la nuova maggioranza a sostenere un esecutivo in netta rottura con quello sovranista che imperversato fino all’altro ieri. E poi la richiesta, categorica, di discontinuità, senza la quale il segretario dem non ha neppure intenzione di sedersi al tavolo della trattativa.

Cinque punti non casuali, tutt’altro che scontati, che impegnerebbero la nuova maggioranza a sostenere un esecutivo in netta rottura con quello sovranista

Questa discontinuità coincide con una cesura rispetto agli ultimi quattordici mesi, in cui, per il Pd, c’è una figura su tutte che non può essere confermata nel suo ruolo, quella di Giuseppe Conte. L’ipotesi di un Conte-bis, per Zingaretti, è impossibile da percorrere.

Il sacrificio dell’attuale premier potrebbe liberare la strada per Luigi Di Maio, per il quale cadrebbe il veto, nonostante i pesantissimi scambi di accuse, con l’attuale vicepremier, che fino a una settimana fa brandiva strumentalmente il velenosissimo bastone del ‘partito di Bibbiano’ per gettare fango sui democratici. E il Pd che gli rispondeva, querelandolo, di essere solo un “bugiardo, mistificatore aggrappato alla poltrona”.

Chi dovrà per forza di cose farsi da parte è Danilo Toninelli. Non tanto per essere già passato alla storia per il ministro che ha collezionato più gaffe nel giro di così pochi mesi, ma soprattutto perché rappresenta plasticamente quell’Italia del No alle infrastrutture e alla modernizzazione delle grandi opere. Sarebbe, in sostanza, un bersaglio troppo facile da colpire per chi griderà al cedimento del Pd sul lato della crescita e dello sviluppo.

Chi dovrà per forza di cose farsi da parte è Danilo Toninelli

Ponendo queste due condizioni (una esplicita, quella dei 5 punti, su cui il M5s si è già detto disponibile a trattare, una implicita, quella dei veti personali), Zingaretti ha ottenuto molteplici risultati: ha chiarito che il Pd non è disponibile a sostenere qualsiasi governo, dettando da subito l’agenda e lasciando aperta la strada del voto anticipato, in cui si presenterebbe come unica alternativa a Salvini. Contemporaneamente ha ributtato la palla nel campo dei Cinque Stelle, che ora saranno chiamati a scelte difficili e laceranti. Ha rilanciato la sua figura, oggettivamente offuscata nell’ultimo periodo, chiarendo che qualsiasi accordo dovrà passare per la sua approvazione.

Resta sullo sfondo lo spauracchio di quelle che potrebbero essere le prossime mosse di Renzi. Il timore diffuso è che, specie se lui e suoi fedelissimi resteranno fuori dalla compagine di governo, il senatore fiorentino possa considerare l’esperienza rosso-gialla come una parentesi la cui durata dipenda soprattutto da lui e dalle ambizioni del suo futuribile partito personale. Ma, anche in forza dell’atteggiamento tenuto dai suoi in Direzione, comincia a farsi strada la convinzione che il primo a volere che questo governo nasca e duri tre anni sia proprio lui. “Difficilmente – si dice in ambienti parlamentari dem – gli ricapiterà di avere un gruppo di deputati e senatori così numeroso”. E tra poco più di due anni si eleggerà il prossimo presidente della Repubblica, un’occasione troppo ghiotta per non essere considerata.

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