Grande coalizioneCura omeopatica per emergenza democratica, il Pd si è innamorato dei Cinque Stelle

Fino a ieri i Dem sostenevano che Conte fosse il premier del governo più a destra della storia d'Italia, improvvisamente è diventato quello più a sinistra. Il salto non è da poco. Il problema è che è già successo (e sappiamo com’è finita)

Andreas SOLARO / AFP

Sembra ieri che i dirigenti del Pd denunciavano allarmati i segni di un’involuzione autoritaria, il rischio della bancarotta finanziaria e lo scandalo delle scelte disumane compiute dal governo Conte nel campo della sicurezza, della politica economica e dell’immigrazione. Sembra ieri perché era ieri, e se non lo era in senso stretto poco ci manca, perché si trattava del mese scorso: almeno fino all’8 agosto compreso, primo giorno della pazza crisi del Papeete.

Era invece proprio ieri – ma pure l’altro ieri, e anche la settimana scorsa – che fior di ministri e dirigenti del Partito democratico parlavano con trasporto dei grandi piani del governo Conte, illustravano ambiziosi progetti per rilanciare la crescita dell’economia, cancellare le diseguaglianze, affrontare le sfide del cambiamento climatico, con quel misto di incosciente entusiasmo e cieca fiducia nell’avvenire che ci si aspetterebbe dalla classe dirigente di un paese alle soglie del miracolo economico, non della bancarotta.

Dalle interviste ai giornali e dalle dichiarazioni in tv sembra essere già sparita ogni traccia di quelle gravi preoccupazioni per le sorti del paese, della sua economia, del suo tessuto sociale e della stessa convivenza civile, che fino a ieri sembravano togliere il sonno ai democratici, e imporre loro una soluzione certo meno limpida e lineare di quella che avrebbero voluto, ma dolorosamente necessaria per salvare l’Italia dalla spirale dell’odio e dell’aumento dell’Iva.

In meno di un mese il capo del governo “più a destra della storia d’Italia” è diventato il capo del governo “più a sinistra della storia d’Italia”

Il governo di emergenza non aveva ancora giurato che i più autorevoli esponenti del Pd erano già impegnati a tracciare le linee ideali e programmatiche della nuova grande alleanza giallorossa per il governo del paese, delle regioni e anche – perché no? – per le prossime politiche. In meno di un mese il capo del governo “più a destra della storia d’Italia” è diventato il capo del governo “più a sinistra della storia d’Italia” (e per il ministro Boccia, addirittura, “il nostro Bearzot”). Nello stesso arco di tempo il principale partito della sua maggioranza è passato da minaccia per la democrazia (fino all’8 agosto) ad argine contro la deriva autoritaria (dal 9 agosto al 5 settembre, giorno della formazione del nuovo governo) quindi ad avamposto del progresso sociale e civile della nazione (dal 5 settembre in poi).

Ma tutto questo sarebbe ancora niente, se non ci venisse spiegato con quel di più di retorica e di birignao burocratico, per cui l’ipotesi di un governo davvero emergenziale, senza esponenti di partito e col solo obiettivo di cambiare la legge elettorale, per disinnescare il rischio di una regressione democratica e poi tornare al voto, quella no, quella sarebbe stata una “soluzione pasticciata” alla quale era giusto opporsi sin da subito; mentre cosa ben diversa, e di ben più “largo respiro”, ovviamente, sarebbe invece l’idea di un’intesa “strategica” con i cinquestelle, come quella che intervista dopo intervista si viene delineando sempre più nettamente dalle parole di dirigenti, neoministri e neosottosegretari del Pd, ogni giorno più entusiasti, carichi di quell’orgogliosa gioia di esserci che ci si aspetterebbe da un partito che abbia appena vinto le elezioni e sia in piena luna di miele con l’elettorato, non con Di Maio.

Non è la prima volta che un governo nato dall’emergenza viene salutato come l’inizio di una nuova era, e il suo capo acclamato come il salvatore dell’Italia, destinato a risanare l’economia e restituire al paese il posto che gli spetta in Europa

Può darsi, naturalmente, che il tempo dia ragione agli strateghi di questo nuovo “centrosinistra allargato” e alla loro manovra, per quanto ardita oggi possa apparire: una sorta di terapia omeopatica per l’emergenza democratica. Del resto, se per Massimo D’Alema tra un voto su Rousseau e un voto in una direzione di partito non c’è poi gran differenza, se per tanti editorialisti Giuseppe Conte e il Conte di Cavour pari sono, chi siamo noi per mettere in dubbio la possibilità che alla fine della fiera, nonostante tutto, il grande azzardo riesca, la zucca si trasformi in carrozza e il Movimento 5 stelle in un partito democratico? Certo, al momento sembra sia piuttosto il Partito democratico a trasformarsi in un piccolo Movimento 5 stelle (senza però il senso dell’umorismo di Grillo, né il senso degli affari di Casaleggio), ma chi può dire come finirà?

Tutto è possibile. Ci permettiamo di suggerire comunque un supplemento di cautela, e soprattutto di misura. Non è la prima volta che un governo nato dall’emergenza viene salutato come l’inizio di una nuova era, e il suo capo acclamato come il salvatore dell’Italia, destinato a risanare l’economia e restituire al paese il posto che gli spetta in Europa. È già accaduto nel 2011. Ma quel leader si chiamava Monti, non Conte, e con tutti i suoi difetti, quanto a gestione dei conti e credibilità internazionale, offriva qualche garanzia in più.

E sappiamo come è finita.

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