Tempi moderniOttantenni di domani, vivrete di più. Ma lavorerete fino alla fine sotto stress

Lo sviluppo della scienza medica fa passi da gigante e migliorerà la nostra aspettativa di vita. Ma ai ritmi lavorativi delle grandi metropoli, soprattutto asiatiche, con il business al centro di tutto fino alla tarda età, varrà la pena di vivere così tanto?

RHONA WISE / AFP

Lo sviluppo della scienza medica può allungare ulteriormente la vita? È l’obiettivo di tante realtà del settore. Per esempio della SENS (Strategies for Engineered Negligible Senescence) Research Foundation, organizzazione scientifica della Silicon Valley che si occupa di medicina rigenerativa collegata alle malattie dell’età avanzata, compreso cancro e Alzheimer. E che parte da un presupposto noto. Le cellule senescenti, che si accumulano nei tessuti e negli organi quando le persone invecchiano, sono ancora metabolicamente attive ma non più efficienti come nel passato, causando infiammazioni e altre problematiche tipiche della vecchiaia. Nei topi, da qualche anno, gli scienziati hanno scoperto come eliminare le cellule senescenti con risultati soddisfacenti in termini di prevenzione delle loro malattie e anche di allungamento della loro vita. E il SENS Research Foundation sostiene che entro una decina di anni potranno raddoppiare la durata della vita residua dei topi di mezza età. Uno studio di Richard G. A. Faragher, professore di biogerontologia all’Università di Brighton, nel Regno Unito, pubblicato nel 2017 su «BMC Cell Biology», afferma che i «resveralogues», sostanze chimiche a base di resveratrolo – una delle fitoalessine prodotte naturalmente da parecchie piante o nella buccia dell’acino d’uva, noto antitumorale, antinfiammatorio e fluidificante del sangue che può limitare l’insorgenza di placche trombotiche – ringiovaniscono le cellule dei pony ed entro un quinquennio possono essere tradotti in studi clinici sugli esseri umani.

I percorsi sono molteplici, dal CRISPR, con l’ausilio dell’Intelligenza Artificiale, all’ingegneria delle proteine e del sistema immunitario, fino alle cellule staminali. Mentre punta sullo studio del sangue la startup californiana BioAge Labs, che nel 2017 ha raccolto quasi 11 milioni di dollari per sviluppare la sua piattaforma di «machine learning» per trovare fattori del sangue, come proteine o metaboliti, che possano prevedere la durata della vita di una persona. Anche in questo caso la ricerca, che ha preso in esame i sistemi circolatori di topi vecchi e giovani, condividendo lo stesso sangue, ha reso i vecchi topi più sani e robusti. Forever Labs, start up biotecnologica di Ann Arbor, Michigan, punta invece sulle cellule staminali e offre un servizio per congelare criogenicamente le cellule staminali prelevate dal midollo osseo. Alla base vi è una ricerca che dimostra che le cellule staminali possono essere una componente chiave per la riparazione del danno cellulare. Questo perché le cellule staminali possono svilupparsi in molti diversi tipi di cellule e possono dividersi all’infinito per ricostituire altre cellule. Ma le cellule staminali hanno una data di scadenza che di solito coincide con l’età in cui la maggior parte delle persone inizia a sperimentare seri problemi di salute. Ecco quindi che Forever Labs le raccoglie in clienti ancora in giovane età per poi poter fornire loro una risorsa terapeutica in futuro, soprattutto come contrasto per artrosi, malattie cardiovascolari, ictus e Alzheimer.

Più si allunga la vita e più bisognerà tenere sotto controllo i tassi di natalità

A prescindere dall’allungamento della vita media, il tema coinvolge anche importanti implicazioni sociali. Per la National Academy of Science, entro il 2050, la popolazione globale degli over 65enni toccherà quota 1,6 miliardi, mentre gli over 80enni saranno quasi 450 milioni. Il benessere fisico di queste persone può evitare un enorme costo medico. Ma è anche vero che più si allunga la vita e più bisognerà tenere sotto controllo i tassi di natalità. Con sempre meno nuove menti «sveglie» e al contempo sempre più rincoglioniti. Certo, non è detto, ma il rischio c’è, anche in termini di progresso. Ma alla luce di questo trend mondiale, c’è da porsi una ulteriore domanda. Ai ritmi lavorativi delle grandi metropoli – soprattutto asiatiche – con il business al centro di tutto fino alla tarda età, varrà la pena di vivere così tanto?

Il principio di «muovere il culo» è soprattutto (ma non solo) uno sprone alla consapevolezza e alla volontà di trovare il miglior lavoro possibile in funzione delle attitudini di ognuno di noi. E a cavallo del 2050 – continuando semplicemente sui ritmi odierni di crescita generale di cultura e scienza – si prospetta realmente una società sempre meno malata in termini salutistici e inevitabilmente sempre più concentrata sui soldi per mantenere un tenore di vita accettabile ben oltre gli 80 anni. E se già oggi la qualità della vita intesa come tempo da dedicare al lavoro e ai relativi spostamenti è dura, figuriamoci nel domani. In questo senso basta l’esempio odierno di Hong Kong, dove una famiglia di quattro persone vive in un appartamento di 30 metri quadrati, ai lavoratori sono richieste giornate da 20 ore e, come se non bastasse, devono fare un’ora di metropolitana per andare in ufficio e una per tornare a casa. Come saremo messi nel 2050?

pensare a una società piena di ultraottantenni insoddisfatti che si affannano in una quotidianità di solo lavoro mi spaventa non poco

Peraltro è un tema dibattuto da tempo. Già nel 1948, il filosofo tedesco Josef Pieper, nel suo libro Leisure: The Basis of Culture, inventa il termine «Total work» per indicare il processo attraverso il quale gli esseri umani vengono trasformati in lavoratori e nient’altro. Non è mica fantascienza distopica. Si riferisce ben più realisticamente alla situazione in cui il lavoro è al centro di tutta la vita umana; quando tutto il resto – tempo libero compreso – è messo al suo servizio. Guardate che di uomini così, in giro per il mondo, ce ne sono tanti.

Badate bene, come fa notare il filosofo Andrew Taggart in un suo articolo su Aeon (Creative Commons): «Fondamentalmente, l’atteggiamento del lavoratore totale non è colto al meglio nei casi di superlavoro, ma piuttosto nel modo in cui ogni giorno è focalizzato in modo univoco sui compiti da completare, con la produttività, l’efficacia e l’efficienza da potenziare. Come? Attraverso le modalità di pianificazione efficace, la definizione delle competenze e la delega tempestiva. Il lavoratore totale, in breve, è una figura di attività incessante, tesa, impegnata: una figura, la cui afflizione principale è una profonda irrequietezza esistenziale fissata sulla produzione dell’utile». E continua Taggart, immaginando una conversazione tra due lavoratori totali: «C’è, per cominciare, una tensione costante, un senso di pressione generale associato al pensiero che c’è qualcosa che deve essere fatto, sempre qualcosa che dovrei fare in questo momento. Come dice il secondo interlocutore, c’è in concomitanza la domanda incombente: è questo il miglior uso del mio tempo? Il tempo, il nemico, la scarsità, rivelano i limitati poteri d’azione dell’agente, il dolore dei costi di opportunità irrisolvibili».

Dateci retta, queste considerazioni non sono così filosofiche come possono apparire, sono assolutamente corrette. E, potenzialmente, innescano un ciclo infinito di insoddisfazione. Con il rischio di perdere del tutto l’orizzonte tanto caro al popolo italiano, non del fancazzismo ma del migliore umanesimo, della bellezza, del rapporto con l’eternità, con i sentimenti astratti dell’amore e del divertimento, astratti ma che sono alla base dei migliori momenti della nostra vita. E, a parte le battute, pensare a una società piena di ultraottantenni insoddisfatti che si affannano in una quotidianità di solo lavoro mi spaventa non poco.

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