La forza della mafia è determinata dai suoi legami interni e dai suoi rapporti con il mondo esterno. I primi sono determinati dall’omertà e dalla convenienza; gli altri dalla fragilità morale di uomini delle istituzioni, di imprenditori, di cittadini comuni. L’omertà assicura la copertura reciproca tra i componenti del gruppo mafioso; la convenienza è determinata dai benefici economici e dal senso di potere che conferisce la soggezione ai mafiosi di settori della società civile.
I rapporti con il mondo esterno riguardano lo scambio con la politica (voti contro favori), i patti con le imprese (appalti e spartizione degli utili), le intimidazioni o le corruzioni per chi opera nelle istituzioni, il potere esercitabile dalle carceri, l’imposizione dell’omertà ai cittadini, attraverso minacce qualora intendessero testimoniare contro l’organizzazione, l’indifferenza della gente comune.
In questo capitolo indicherò sinteticamente alcune misure di lotta alla mafia volte a spezzare i vincoli interni e quelli esterni: la tutela dei cosiddetti pentiti e dei testimoni di giustizia, il carcere di massima sicurezza, lo scioglimento per mafia dei consigli comunali, la selezione delle candidature per le varie elezioni, il cosiddetto voto di scambio, le interdittive antimafia (che sono provvedimenti amministrativi diretti a impedire a determinati soggetti di prendere parte a gare pubbliche).
Prima però voglio parlarvi di una questione meno nota. Nel 1996, ero vicepresidente della Camera, avevo tenuto a Reggio Calabria un’iniziativa per i licei della città proprio sui temi della lotta alla mafia. Un giovane funzionario di polizia venne a trovarmi in albergo. La moglie di un potente capomafia della zona, in carcere con più ergastoli, voleva parlarmi, ma in un’altra zona della città, meno esposta. Ci vedemmo l’indomani mattina verso mezzogiorno quasi in campagna, in un casolare che stava in piedi per miracolo. La donna era venuta con sua cognata, sorella del marito, a sua volta moglie di un capomafia, anch’egli all’ergastolo. Aveva tre figli e la cognata due: cinque maschi e nessuna delle due voleva che i figli prendessero la strada dei padri. «Fate qualcosa, portateli via; qui finiscono o al cimitero o al 41bis». Ne parlai a don Luigi Ciotti, presidente di Libera. Qualche settimana dopo venni eletto alla presidenza della Camera e non potei più occuparmi personalmente della faccenda. Ma ero tranquillo perché don Luigi se ne stava già prendendo cura, probabilmente meglio di quanto non avessi saputo fare io.
Il problema dei «figli della mafia» è sempre più rilevante. Un numero crescente di madri chiede segretamente a magistrati, poliziotti, carabinieri, che i figli vengano sottratti a un destino di mafia perché, nella realtà in cui sono immersi, i condizionamenti sono fortissimi. Un ragazzino, per dare prova di coraggio ’ndranghetista, ha rifiutato l’anestesia nel corso della estrazione di un dente. Un altro si è fatto tatuare sulla pianta del piede l’immagine di un carabiniere per calpestarla quando cammina. Altre madri chiedono di essere obbligate ad andar via per stare vicino ai figli, e liberarsi così dalla trappola famigliare, ma con un provvedimento giudiziario che dia a quella loro scelta le sembianze di un obbligo imposto.
Nel settembre del 2011 alla presidenza del Tribunale dei minori di Reggio Calabria è arrivato un magistrato, Roberto Di Bella, che si è posto il problema e lo sta affrontando efficacemente, come egli stesso ha spiegato ai componenti della Commissione parlamentare antimafia, nel corso di un’audizione del 29 aprile 2014: «La conseguenza immediatamente tangibile della mia lunga esperienza professionale nel settore è che la ’ndrangheta si eredita. Le famiglie di ’ndrangheta si assicurano il controllo del territorio attraverso la continuità generazionale. […] Da circa due anni, al di là dei provvedimenti penali che adottiamo nei confronti di minori che commettono reati, abbiamo mutato orientamento giurisprudenziale provando a interrompere questa spirale perversa di trasmissione di valori negativi da padre in figlio, adottando dei provvedimenti di limitazione della potestà, ora responsabilità genitoriale, dei boss con contestuale allontanamento dei minori dalle famiglie nei soli casi di concreto pregiudizio, cioè di indottrinamento malavitoso, rischi per faide, pregiudizi molto forti… L’obbiettivo non è la punizione delle famiglie; ma prestare aiuto a questi ragazzi, allontanarli per fornire delle alternative culturali, parametri valoriali educativi diversi da quelli deteriori del contesto di provenienza nella speranza di sottrarli alla definitiva strutturazione criminale. Se si nasce a San Luca, a Bovalino, a Rosarno, a Locri, se si ha un nonno ’ndranghetista, un padre ’ndranghetista, fratelli ’ndranghetisti in carcere, una madre intrisa di cultura mafiosa, la possibilità di uscire, di affrancarsi dalle norme parentali sono quasi nulle» (Commissione antimafia, relazione finale, p. 234).
Lasciare nella famiglia ragazzini che possono soltanto nutrirsi di cultura mafiosa significa segnare il loro destino, o in carcere o al cimitero, come i nonni, i padri, i fratelli. E quindi, in applicazione di leggi nazionali e di convenzioni internazionali, che impongono di salvaguardare soprattutto il futuro del minore, quando la famiglia lungi dall’essere un luogo educativo è un luogo di formazione al crimine, il ragazzo o la ragazza sono allontanati dalla famiglia e aiutati a costruirsi un percorso di vita nella legalità, grazie al lavoro dei servizi sociali o di associazioni di volontariato, come Libera o Addiopizzo, con la guida del Tribunale dei minori. Questo orientamento è condiviso da altri importanti tribunali per i minorenni del Sud, come Napoli, Catania e Catanzaro. A Reggio Calabria il provvedimento è stato adottato nei confronti di trenta minori: i ragazzi hanno ripreso a frequentare la scuola, svolgono attività socialmente utili, seguono percorsi di educazione alla legalità.
«Spesso» ha spiegato Roberto Di Bella in una intervista a «L’Espresso» dell’11 agosto 2019 «sono le stesse madri che ci pregano di mandare fuori i loro figli e di poterli seguire… Se siamo noi a decidere, loro non saranno colpite».
Due bravi giornalisti, Carlo Bonini e Giuliano Foschini, hanno scritto un bel libro sulla mafia foggiana, Ti mangio il cuore, nel quale raccontano un episodio agghiacciante. Nella provincia di Foggia una giovane bellissima ragazza sposa un capomafia locale e ha da lui due figli. Alcuni anni dopo, il marito viene condannato a più ergastoli. La donna, rimasta sola, cede alle avances di un altro giovane boss, capo di un gruppo mafioso ferocemente rivale di quello capeggiato dal marito, dal quale ha altri due figli. Anche il suo nuovo compagno finisce in carcere con gravi condanne. Man mano che i figli crescono, i primi affidati alle cure della nonna, gli altri rimasti con lei, la donna si rende conto che i ragazzi, figli di padri diversi e tra lroro ferocemente nemici, avrebbero finito per considerarsi a loro volta nemici e destinati a uccidersi l’uno l’altro. Decide quindi di parlare con i magistrati rivelando tutto ciò che sa sulle imprese dei due clan e salvare quindi tutti e quattro i suoi figli.
da: Colpire per primi. La lotta alla mafia spiegata ai giovani, di Luciano Violante, pubblicato da Solferino Libri (2019)