C’era una volta la premier della Finlandia, Sanna Marin, che voleva regalare al suo paese la settimana corta di quattro ore. Ecco, finalmente, una bella, edificante favola. Si poteva cominciare meglio il 2020? All’inizio, dopo il primo lancio del magazine New Europe il 2 gennaio scorso, ci avevano creduto un po’ tutti, in Europa e nel mondo. Non potevano mancare, ovviamente, i nostri giornaloni: il Corriere della Sera, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano. Che cosa c’è di meglio del sogno di un paradiso socialdemocratico come quello dei paesi del Nord Europa, da sempre desiderato e invidiato dalle nostre terroniche latitudini? Ma la notizia era “troppo bella per essere vera”, come ha spiegato con un bel po’ di ironia il sito finlandese News Now Finland il 6 gennaio scorso. E così il giorno dopo, 7 gennaio, l’account ufficiale del governo finlandese ha dovuto smentire con un tweet: la proposta non si trova nel programma politico della coalizione e, in ogni caso, non è all’ordine del giorno dell’azione di governo. Sanna Marin aveva in effetti lanciato l’idea di una settimana lavorativa di soli 4 giorni per 6 ore lavorative nell’estate scorsa, durante un evento del partito socialdemocratico. Ma l’idea non ha avuto seguito, se non nella fantasia di chi l’ha rilanciata all’inizio di quest’anno.
Fine della favola? Tutto risolto? Non proprio. Almeno in Italia.
Uno dei principali sostenitori della riduzione dell’orario di lavoro è il presidente dell’Inps Pasquale Tridico. «La riduzione dell’orario di lavoro, a parità di salario, è una leva per ridistribuire ricchezza e aumentare l’occupazione», aveva detto Tridico in una lezione dell’aprile 2019 sulle diseguaglianze nel capitalismo finanziario alla facoltà di economia della Sapienza. L’ex consigliere del ministro Di Maio, già candidato dei grillini al Ministero del Lavoro, aveva anche aggiunto: «Siamo fermi in Italia all’ultima riduzione dell’orario dal 1969. Non ci sono riduzioni da 50 anni e invece andrebbe fatta. Gli aumenti di produttività vanno distribuiti o con salario o con un aumento del tempo libero. Con questa riduzione aumenterebbe l’occupazione». Ma il dettaglio fondamentale del ragionamento è che la riduzione dell’orario di lavoro dovrebbe avvenire a parità di salario. In sostanza, come aveva scritto tempo fa sul Blog delle Stelle il presidente dell’Inps, per fronteggiare l’avanzare della robotizzazione che mette a rischio i posti di lavoro, «il primo passo sarà la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario per aumentare l’occupazione e incentivare la riorganizzazione produttiva delle imprese».
A dimostrazione dell’importanza del tema nel programma dei Cinquestelle, nel settembre scorso Beppe Grillo aveva pubblicato sul suo blog un intervento con il quale Claudio Cominardi, capogruppo del M5s in commissione Lavoro della Camera, apriva a una riduzione dell’orario di lavoro, sulla scia delle tesi proposte dai Laburisti, poi sconfitti alle elezioni nazionali. «In Inghilterra – scriveva Cominardi – il partito laburista di Jeremy Corbyn sta promuovendo una riduzione dell’orario di lavoro e della settimana lavorativa. Stiamo parlando della patria della rivoluzione industriale, dove la normalità era quella di lavorare fino a 16 ore al giorno».
«L’obiettivo comune – dice ancora Cominardi – dev’essere quello di raggiungere gli standard dei principali Paesi europei, dove si lavora meno e si guadagna di più. Un esempio su tutti è la Germania dove si lavora 7 ore in meno alla settimana, in poche parole, gli italiani lavorano quasi un giorno in più alla settimana rispetto ai tedeschi a fronte di salari ben più bassi».
Sul punto esiste una proposta targata Cgil e sostenuta dal sindacalista e studioso Agostino Megale, presidente dell’Istituto di Ricerca e Formazione Lab, che propone la formula “4 x 8 a scorrimento”, in base alla quale si lavorerebbe, a salario invariato, per 4 giorni (non fissi) a settimana e per 8 ore al giorno. Sulla base di questa ipotesi, secondo Megale si tratterebbe di lavorare (a turno) anche nei weekend e portare al 100% il tempo di utilizzo degli impianti, al contempo assumendo il 20% di persone in più per coprire i vuoti. Il sistema sarebbe finanziato con due strumenti: fiscalizzando gli oneri contributivi dei giovani da assumere e aumentando la produttività ottenuta dal maggiore uso degli impianti e dalla minore usura dei lavoratori. Secondo Megale, infine, questa misura non andrebbe sperimentata soltanto nelle aziende in crisi, ma diventerebbe una vera e propria norma generale da diffondere in tutto il sistema produttivo al fine di far crescere sia l’occupazione che la produttività.
Anche il sociologo De Masi, uno dei maître à penser della prima ora per l’universo grillino, è da sempre un convinto sostenitore della necessità di lavorare meno. «Grazie alle tecnologie e alla globalizzazione, noi siamo in grado di produrre più beni e servizi e con meno ore di lavoro. Il modello da seguire è quello della Germania che ha raggiunto il 79% di produttività, facendo un po’ di flessibilità ma soprattutto riducendo l’orario di lavoro. Purtroppo, invece, in Italia hanno vinto gli esperti che dicevano che il problema dell’economia italiana era che bisognava aumentare la flessibilità. Così abbiamo fatto la legge Biagi, tolto l’articolo 18, introdotto il Jobs Act, e il misero risultato è che il tasso di occupazione in Italia è passato dal 57,1% del 2001 al 58,4% del 2018, e per di più quel piccolo aumento è stato dovuto solo ai precari». Proprio l’anno scorso il sociologo ha collaborato alla stesura di una proposta di legge – presentata in Parlamento da Nicola Fratoianni di Leu – basata su un modello di produzione diverso, fatto di paghe più alte e orario ridotto.
Ma se nella vulgata sindacale, grillina e “desinistra”, la soluzione è così semplice perché non si procede rapidamente alle magnifiche sorti e progressive della settimana corta? In fondo, il M5s è il perno del governo giallo-rosso, Leu è una componente rilevante al punto da gestire il ministero della Sanità, la Cgil sembra aver di nuovo assunto un atteggiamento moderato e filogovernativo dopo i furiosi litigi con Renzi e il premier è nientepopodimeno che un sedicente “avvocato del popolo”.
«In questi ultimi quattro anni, sul versante del lavoro – spiega il sociologo Luca Ricolfi, autore del volume La società signorile di massa – le cose sono andate meglio di prima, ma peggio che nella maggior parte degli altri paesi europei. Normale che sia così, perché noi non abbiamo ancora risolto il problema del debito pubblico (che anzi si è un po’ aggravato), né rimosso le grandi strozzature (tasse e burocrazia innanzitutto) che impediscono al Pil di crescere a un ritmo sufficiente. Possiamo fare tutte le leggi che vogliamo, ma il problema di fondo resta sempre quello: se il Pil non cresce almeno a un ritmo del 2-3% l’anno, è impossibile garantire sia un flusso cospicuo di nuovi posti di lavoro, unico modo sano di dare un po’ di ossigeno alle famiglie, sia un aumento della produttività, unico modo per essere competitivi sui mercati internazionali». Il problema, insomma, resta sempre la mancata crescita. E d’altra parte, tra le condizioni strutturali della nostra “società signorile di massa” – secondo la fotografia dell’Italia scattata da Ricolfi – vi sono proprio la maggioranza di non-lavoratori (troppi rispetto ai produttori di reddito) e la stagnazione. Condizioni che con la riduzione dell’orario di lavoro probabilmente aumenterebbero, incrementando così il sistema delle rendite parassitarie.
Assai critico sulla proposta è anche Pietro Ichino, avvoca e giurista del lavoro. Con il sogno della settimana corta, spiega Ichino nel suo blog, «il M5s mostra di ignorare gli esiti che questa misura ha prodotto, quando è stata adottata da un Governo nazionale con una legge di applicazione generale. Per esempio, in Francia nel 1981 e poi di nuovo nel 2001: gli studi in proposito indicano risultati occupazionali intorno allo zero». I motivi sono molteplici. «Sul lato dell’offerta di manodopera innanzitutto – continua Ichino -: i disoccupati, nella maggior parte dei casi, sono tali perché mancano loro le competenze che gli occupati hanno. Ma ovviamente anche sul lato della domanda: proprio l’esperienza francese insegna che, se si costringono gli occupati regolari a lavorare per un’ora in meno, le imprese cercano per prima cosa di far fare loro lo stesso lavoro di prima in un’ora in meno; ma, se non ci riescono, non assumono certo un disoccupato per quell’ora mancante: semmai chiedono al già occupato un’ora di straordinario». E conclude: «il M5S farà bene a considerare che, il più delle volte, la rete non conosce la storia; e la storia, in materia di politica del lavoro, ha molto da insegnare».
Contrari alla proposta di riduzione strutturale dell’orario di lavoro sono anche Giuseppe Croce, economista della Sapienza, e Michele Faioli, giurista del lavoro. «Dato che la nostra produttività oraria non cresce da un paio di decenni e, pertanto, non vi sono le condizioni più favorevoli per una riduzione dell’orario di lavoro finanziata dai guadagni di produttività – spiegano i due studiosi in un articolo sul sito della Fondazione PER dal titolo “Lavorare meno, lavorare tutti” – si verrebbe a determinare un taglio dei salari non più rimediabile con interventi di bilancio pubblico». I due autori propongono di recuperare semmai la vecchia proposta avanzata da Ezio Tarantelli 35 anni fa. «In quella proposta la riduzione di orario ha tre caratteristiche significative: è su richiesta del lavoratore, è inserita nella contrattazione collettiva aziendale, non avviene a parità di salario». Ma così sarebbe tutta un’altra storia.