Faiza Maraj ha 51 anni e quattro figli di 26, 23, 18 e 12 anni. È arrivata in Italia dall’Egitto nel 2006, tramite il ricongiungimento familiare. Suo marito fa il muratore, lei insegna arabo alla scuola del Parco Trotter. Durante l’emergenza coronavirus, si è resa protagonista dell’aiuto dato alle famiglie nel suo quartiere di Milano, NoLo (Nord Loreto, ndr). Del resto non è inconsueto fra stranieri in una grande città, aiutarsi l’un l’altro: i problemi, tra lavoro, istruzione dei figli, burocrazia, sono sovente gli stessi.
«Qui tante donne con il velo hanno bisogno di integrarsi, perché non lavorano e non sanno la lingua», spiega Faiza. Con loro, prima dell’emergenza organizzava i corsi di cucito dell’associazione Amici del Parco Trotter. Poi è arrivato il coronavirus, e tutto si è bloccato.
«Tanti componenti di queste famiglie hanno perso il posto e chi aveva avviato una formazione professionale per entrare o rientrare nel mercato del lavoro si è visto interrompere improvvisamente il proprio percorso. Molte persone avevano contratti temporanei, per esempio nella ristorazione o nel settore alberghiero o nell’edilizia, che non sono più stati rinnovati e non si sa se e quando saranno riattivati; alcuni lavoravano in nero e hanno perso la sola occupazione che, bene o male, consentiva loro di sostenere la famiglia», spiega a Linkiesta lo staff della Casa della Carità di don Virginio Colmegna.
Il fenomeno è difficile da inquadrare, i numeri sono ancora in fase di raccolta. Si tratta di famiglie con figli, stranieri, anziani, ma anche tanti giovani. Secondo un recente sondaggio della Caritas, che nei mesi del lockdown in Italia ha assistito quasi 450.000 persone, di cui il 61,6% italiane, per il 34% si tratta di “nuovi poveri”.
«Dopo la crisi del 2008 la povertà in Italia è cresciuta sensibilmente, e in dieci anni è raddoppiata. La situazione del nord è migliore, ma all’interno delle aree metropolitane l’incidenza della povertà è maggiore», puntualizza Monica Villa, vice-direttrice dell’area Servizi alla Persona di Fondazione Cariplo.
«Per molti sono bastate poche settimane di blocco per dare fondo ai risparmi. Noi abbiamo incontrato molte persone che mai prima d’ora si erano rivolte alla Caritas, ci chiedevano aiuto per avere cibo, pagare le bollette o addirittura l’affitto, perché avevano timore di non riuscire nemmeno a tenersi la casa», aggiunge Luciano Gualzetti, direttore della Caritas Ambrosiana.
Sono gli effetti invisibili del coronavirus, slegati dal contagio, ma ugualmente pericolosi. Secondo un recente rapporto di Confcommercio, circa il 10% degli imprenditori, in questo periodo, «risulta esposto all’usura» o a tentativi di «appropriazione ‘anomala’» dell’azienda. Nelle case, gli episodi di violenza sulle donne, rinchiuse e sole durante il lockdown, sono esplosi. Fra mancanza del lavoro e chiusura delle scuole, la sensazione è che ci sia una bomba sociale che ticchetta, ma senza una scadenza.
«La povertà è una questione complessa, dove alla povertà economica spesso si aggiunge quella abitativa, educativa, relazionale», spiega Villa. Tra queste, nel momento del lockdown a presentarsi con più forza è stata quella alimentare, che ne è anche «l’espressione più nera», dice l’esperta. Il problema è reale soprattutto fra i bambini: l’esclusione dalla scuola ha comportato che per molti venisse a mancare l’unico pasto della giornata, quello della mensa. Secondo l’ultimo rapporto Istat, ancora nel 2019 la povertà assoluta colpiva 1 milione 137mila minori. Si tratta di statistiche che con il coronavirus probabilmente peggioreranno.
Il programma Qubì, fondato da Fondazione Cariplo nel 2016 e sostenuto da Fondazione Vismara, Intesa Sanpaolo, Fondazione Romeo ed Enrica Invernizzi, Fondazione Fiera Milano e Fondazione Snam e realizzato in collaborazione con il Comune di Milano, da sempre si concentra sul fronte della povertà alimentare.
Insieme a Caritas, la Food policy del Comune di Milano, e il Banco Alimentare, la Fondazione ha negli anni contribuito alla creazione dei primi tre Empori di solidarietà della città, piccoli supermercati a cui le famiglie segnalate dai centri di ascolto della Caritas o dal Comune possono accedere avendo a disposizione una tessera punti in base alla composizione del nucleo familiare, con cui possono comporre e pagare il proprio carrello spesa. La Fondazione ha anche contribuito ad attivare in città i primi hub a filiera corta di distribuzione cibo, raccogliendo le eccedenze alimentari che prima diventavano spreco, grazie al contributo di Assolombarda e della grande distribuzione.
«Da tempo ormai stavamo lavorando per creare un unico, grande database di tutte le misure pubbliche di trasferimento monetario alle famiglie, così come delle risposte sul territorio delle piccole organizzazioni, tra le quali non sempre c’è un coordinamento», spiega Villa. Scopo del progetto era quindi riunire tutti questi sforzi di contrasto alla povertà in un’unica grande rete che potesse rispondere ai bisogni, identificando quali aree fossero coperte e quali no, quali bisogni specifici andassero affrontati.
Questo è avvenuto anche con la creazione, da parte di Qubì, di 23 “ricette contro la povertà infantile”, ovvero 23 reti di quartiere che coinvolgono oltre 600 realtà del terzo settore e dell’associazionismo sul territorio, provvedendo a dare una risposta concreta alle persone. «Per intercettare la povertà e le famiglie che rimangono fuori dalle risposte istituzionali, è necessario creare un’offerta molto vicina al bisogno», dice Villa.
Quando è arrivato il coronavirus, in Fondazione erano impegnati nella programmazione di tutte queste attività. All’avvio del lockdown, di colpo la platea si è allargata, e c’è stato bisogno subito di attivarsi per fornire servizi di base. «Ci ha spiazzato all’inizio, poi ci si è resi conto che l’attività di costruzione delle reti territoriali poteva aiutarci a reagire prontamente a quello che era successo», spiega Villa. Attraverso una rimodulazione “in corsa” dei servizi, ci si è potuti attivare per portare cibo a un grande numero di famiglie.
Faiza è tra i volontari che hanno aiutato di più. «Abbiamo aiutato centinaia di persone», racconta. Famiglie con bambini, anziani e anche tanti giovani, di tutte le nazionalità, anche italiani. Casa mia è stata un centralino per mesi», dice ridendo. «È stato fatto tanto: Qubì ha dato una grande mano anche sui materiali della scuola, la fornitura dei libri del libraccio, lo sport».
Presto, infatti, ci si è resi conto che ad essersi allargato era lo spettro non solo delle persone, ma anche dei bisogni. La rete si è dunque attivata anche per mettere in campo sostegni per l’acquisto di tablet e materiali per la scuola a distanza. Su Milano, Qubì ha messo a disposizione 500 device e connessioni per favorire l’accesso al digitale da parte di alcune famiglie. Caritas, per esempio, durante il picco dell’epidemia ha messo a disposizione qualche decina di posti per ospitare i carcerati vicini al fine pena e autorizzati a uscire, mentre la Casa della Carità ha attivato un progetto per sostenere i giostrai rom, rimasti senza entrate e senza la possibilità di spostarsi per lavorare.
Ora, però, il problema è capire come individuare quelli che ancora non sono caduti in una condizione di indigenza cronica, ma potrebbero presto farlo. «Al momento è impossibile dire chi non riuscirà a rialzarsi, e chi sì. Per utilizzare una metafora medica, in Italia si tende a operare sul malato quando ormai è quasi morto. Invece è essenziale lavorare sullo scivolamento verso la povertà, intercettando le persone prima che arrivino a un punto di non ritorno», spiega Villa.
Tutti sono impegnati a capire come rimodulare l’offerta in base ai bisogni. «Una grossa preoccupazione è cosa troveremo dopo l’estate. Qualcuno in questi mesi è stato a galla con nostri aiuti o quelli governativi, ma cosa raccoglieremo dopo?», dice Gualzetti.
Non avere più bisogno di contributi alimentari, infatti, non significa essere usciti dalla difficoltà. Perché la povertà non si cronicizzi fino a diventare una condizione permanente, le persone devono essere messe nelle condizioni di rialzarsi da sole. Non è una sfida semplice: servono aiuti e sostegno continuativi nel tempo, anche volti alla formazione e all’inserimento al lavoro. «I convitati di pietra in tutto questo sono la tematica abitativa e quella lavorativa. Noi cerchiamo di incentivare le reti nel trovare opportunità nei territori. Non abbiamo la forza però di sostenerlo da soli, perché il lavoro non si inventa. Siamo in una situazione forte di emergenza, dove però l’assistenzialismo puro serve a poco, ti tiene nella trappola della povertà», dice Villa.
Per il prossimo futuro, Cariplo ha messo in campo 60 milioni a sostegno, da un lato, dei progetti di contrasto alla povertà, dall’altro per aiuti al terzo settore. «Nel breve periodo come fondazione abbiamo fatto un bando da 15 milioni di euro per sostenere la sopravvivenza degli enti del terzo settore, cruciali per le iniziative nell’area culturale, ambientale e dei servizi alla persona. Nei prossimi giorni lanceremo poi un ulteriore bando da 12 milioni per il contrasto della povertà sia sul fronte alimentare che digitale», dice Giovanni Fosti, presidente di Fondazione Cariplo. «È importante che nessuno abbia la pretesa di avere grandi soluzioni, ma la volontà di mettersi insieme per aumentare velocità di intervento».
Dove lo Stato non riesce ad arrivare, il terzo settore svolge un ruolo fondamentale. Ma serve un impegno concreto da parte di tutti. «Non siamo convinti che le misure per la ripartenza rispondano davvero al concetto di povertà», dice Villa. «Serve un ripensamento per fare davvero un intervento di sistema. Io vorrei un forte lavoro sui dati, capace di leggere e vedere quello che fa il terzo settore. Spero in una riforma del terzo settore che conceda meno burocrazia e faciliti la co-progettazione sul territorio. Non è sempre facile costruire queste reti, si deve trovare tutti il modo di capirne il vantaggio, altrimenti è solo retorica. Mantenere le reti ha un costo, Qubì lo sta sostenendo. Dopo anni, il modo di lavorare a rete non lo lasci più. Chi lavora nelle reti ci dice questo».
Serve più coraggio da parte delle istituzioni. «La crisi del coronavirus ha messo in evidenza solitudini che mascherano una povertà esistenziale. La sfida contemporanea è capire che non possiamo più andare avanti come prima, è un grido per la giustizia sociale, in un’ottica redistributiva che non sia di solo assistenzialismo e mecenatismo, ma di reale fratellanza», dice don Virginio Colmegna. «La politica con la P maiuscola deve farsi carico di questo sistema, per trasformare l’emergenza in urgenza».
Concorde anche Gualzetti: «Partendo dall’incontro con persone in carne ed ossa noi vediamo che gli esiti di certi modelli portano le persone a soffrire. Abbiamo visto che una sanità basata solo sugli ospedali non è il sistema migliore, ci vuole un modello che torna nei territori. Sulla scuola siamo molto preoccupati che chi non ha potuto seguire in questi tre mesi si trovi nella stessa situazione. L’istruzione scarsa la paghi per tutta la vita».