Putin sempre più isolatoIl rebranding selvaggio delle multinazionali in fuga non sta risollevando l’economia russa

La sirena di Starbucks è stata sostituita da una donna che indossa un kokoshnik, la Coca-Cola è diventata Dobry Cola: Mosca ha legalizzato le importazioni parallele (solitamente illegali) per permettere alle aziende di stare nel mercato nazionale. Ma i risultati sono scadenti

LaPresse

Dal settore bancario al petrolifero, passando per l’abbigliamento sia di lusso sia il fast fashion, la tecnologia e il food and beverage, tutte le grandi multinazionali occidentali sono fuggite dalla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina.

In seguito alle sanzioni, c’è stato un crollo significativo nel primo trimestre 2022 in termini di valore aggiunto all’interno di tutti i settori russi, specie in quelli più dipendenti dalla catena di approvvigionamento internazionale.

In particolare l’inflazione è passata nel giugno del 2022 al venti per cento con picchi che hanno raggiunto anche il sessanta per cento nei settori della tecnologia, degli elettrodomestici, delle automobili e dell’ospitalità.

L’economia del Paese scende di 1,7 punti percentuali all’anno e la scorsa settimana è ufficialmente entrata in recessione. I dati dell’agenzia statistica governativa russa mostrano le vendite al dettaglio in diminuzione del 9,7 per cento a ottobre, dopo un calo del 9,8 nel mese precedente. Si tratta di un ribasso che indica una riduzione considerevole della domanda dei consumatori (dovuto anche al calo demografico) e che fa tremare la Banca centrale russa che alla prossima riunione, secondo le previsioni, manterrà inalterato il tasso di riferimento a 7,5. Tutto ciò mentre i prezzi al consumo salgono da dieci settimane.

La Russia è sempre più isolata economicamente. Tanto più che la settimana scorsa il dipartimento del Commercio degli Stati Uniti gli ha revocato lo statuto di economia di mercato, in modo da poter rafforzare la stretta sanzionatoria. Una decisione epocale se si pensa che la fiducia dei mercati globali, concessa a Mosca nel 2002, aveva rappresentato un passo essenziale per la successiva ammissione, nel 2012, nell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC).

Inoltre le sanzioni europee proibiscono di vendere, trasferire o esportare, direttamente o indirettamente, beni di lusso che superano i trecento euro di valore a qualunque persona fisica, legale o entità presente o per uso in Russia.

Alcuni marchi di lusso hanno smesso di vendere ai russi anche in paesi dove possono continuare a viaggiare e fare acquisti. È stato il caso di Chanel, la cui boutique di Dubai si è rifiutata di vendere i suoi prodotti all’interior designer russa Lisa Litvin, che non poteva dimostrare che non li avrebbe usati in Russia. Per la maggior parte dei marchi di moda di alto livello trecento euro sono una cifra che consente di comprare solo piccoli oggetti, ma la situazione è differente per le grandi catene di vendita al dettaglio pensate per la vendita alle grandi masse.

A questo si sono aggiunte le chiusure volontarie dei punti vendita presenti in Russia da parte dei principali marchi della ristorazione come McDonald’s e Coca cola, della tecnologia come Microsoft e Apple e della moda come Zara e H&M. Con un po’ di ritardo rispetto agli altri e dopo molte critiche, ha chiuso i suoi cinquanta negozi anche la giapponese Uniqlo: il suo direttore esecutivo Tadashi Yanai aveva inizialmente dichiarato che «vestirsi è una necessità vitale e i russi hanno lo stesso diritto di vivere che abbiamo noi», ma poi si è ricreduto. 

Nonostante l’addio dei brand occidentali al mercato della Federazione Russa, i consumatori – specie i più abbienti – riescono ancora ad acquistare i prodotti teoricamente inaccessibili nel loro Paese. Ciò avviene grazie alle cosiddette importazioni parallele dagli Stati che non hanno subito il blocco delle merci.

Già a marzo la Russia aveva legalizzato le importazioni parallele, permettendo così ai rivenditori e proprietari di negozi (online o fisici) di importare dall’estero prodotti di marchi terzi senza l’approvazione dei brand in questione. Per la felicità dei rivenditori delle grandi aziende come la Apple, i cui prodotti, di fatto, non hanno mai smesso di essere venduti.

Le importazioni parallele sono di solito illegali perché avvengono senza l’approvazione di chi detiene la proprietà intellettuale di un determinato bene, e abitualmente si servono di un intermediario. Nel caso della Russia, significa che un importatore russo prende accordi con un paese che non partecipa alle sanzioni occidentali, come per esempio la Turchia o la Cina (ma i paesi sono numerosi, le importazioni parallele per esempio vanno forte anche negli Emirati Arabi Uniti o in Kazakistan). L’importatore turco o cinese acquista beni di lusso dall’Occidente e poi li invia, senza il permesso del marchio, in Russia.

A maggio Starbucks aveva annunciato la chiusura di tutte le attività commerciali in Russia, diventando così l’ennesima multinazionale a tranciare ogni legame con il paese, dopo l’invasione dell’Ucraina. Poi quest’estate le ex caffetterie Starbucks hanno riaperto a Mosca con il nuovo marchio Stars Coffee, molto simile, nella denominazione, nel logo e perfino nel concept, a quello della catena americana, grazie agli investimenti del rapper russo Timur Yunusov, noto come Timati, insieme all’uomo d’affari Anton Pinskiy e alla Sindika Company. Questa operazione di rebranding è simile a quella già avvenuta per i ristoranti McDonald’s, di nuovo operativi con il nome Vskusno i tochka.

Il celebre logo con la sirena di Starbucks è stato sostituito da una donna che indossa un tradizionale copricapo russo, il kokoshnik, ma appare evidente l’intento di creare una sorta di continuità tra i due brand. Pinskiy ha dichiarato alla Bbc di non riscontrare somiglianze tra i loghi dei marchi, a parte la loro forma circolare, ma ha confermato la volontà di rendere il caffè di Stars Coffee più simile all’originale e di fidelizzare così i vecchi clienti del brand originario.

In teoria la Russia è membro del Protocollo di Madrid, l’istituto che dovrebbe determinare gli standard globali della proprietà intellettuale e tutelarne l’utilizzo, ma in pratica il Cremlino non sembra far rispettare questo accordo internazionale.

Un caso particolare di re-branding riguarda la Coca-Cola e coinvolge la società svizzera Coca-Cola HBC, una associata dell’azienda americana con licenza di rivendita e imbottigliamento del prodotto. Infatti quest’ultima ha iniziato la produzione e la vendita in Russia di Dobry Cola, una bevanda gassata e zuccherata molto simile a quella originale, da cui trae chiaramente ispirazione.

L’azienda svizzera si è premurata di comunicare pubblicamente che la Dobry Cola non ha niente a che vedere con la Coca-Cola e che non si tratta in alcun modo di plagio. Tuttavia rimane il fatto che The Coca-Cola Company, la “reale” società continua a mantenere una quota di partecipazione del 23% in Coca-Cola HBC, in vista, forse, di una futura acquisizione.

Naturalmente, Coca-Cola HBC non sarà l’unica azienda a cercare di capitalizzare l’uscita del colosso dal mercato russo, infatti già molte aziende locali hanno iniziato la produzione di bevande adatte a sostituire il marchio originale. È il caso della compagnia russa Ochakovo, specializzata nella produzione di bevande tradizionali russe, ma che l’indomani dell’invasione russa ha cominciato ad ampliare la sua gamma di prodotti.

A maggio Ochakovo ha lanciato Cool Cola (al gusto di cola), Fancy (al gusto di arancia) e Street (al gusto di limone e lime) come sostituti rispettivamente di Coca-Cola, Fanta e Sprite. Nel giugno dello stesso anno la società ha annunciato l’intenzione di avviare la produzione di sidro di mele nel territorio di Krasnodar Krai con il marchio Will’s, al fine di sostituire i principali produttori di sidro del paese, Heineken e Carlsberg, che hanno annunciato il loro ritiro dal Mercato russo.

In questo modo la società russa ha preso il posto dei marchi occidentali ritiratisi dal mercato generando una sorta di monopolio del settore. Il riassestamento del mercato interno, prodotto dal ritiro occidentale porterà stravolgimenti economici imprevedibili. 

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