Menare il can per l’AiaQualche precisazione sulla tendenziosa interpretazione della sentenza su Israele

La Corte non ha stabilito l'esistenza di un genocidio, non doveva farlo, ma ha imposto misure cautelari per prevenirlo

LaPresse

Non c’era nessun dubbio sul fatto che il giornalismo da Grande Raccordo Anulare e l’opinionismo da trivio pacifista si sarebbero esercitati nelle meglio puttanate sulla decisione assunta l’altro giorno dalla Corte Internazionale di Giustizia. Perlopiù si è trattato della prevedibile disinvoltura strapaesana degli ignoranti abbestia, la minchioneria imbandierata di pace dell’editorialismo «free free Palestine» secondo cui i giudici dell’Aia hanno intimato a Israele di «fermare il genocidio», ovviamente sul presupposto che il genocidio c’è. Per il resto, si è trattato della callida contraffazioncella di qualche avvocaticchio sussidiato che in realtà, sia pur a fatica, l’effettivo contenuto della decisione di venerdì scorso avrebbe anche potuto comprenderlo, ma ha preferito trasfigurarlo nel verdetto che fa giustizia sulla genocidiaria Entità Sionista aprendo le porte alle verità inoppugnabili della gloriosa democrazia sudafricana.

Semmai servisse a qualcosa (e no, non serve), agli uni e agli altri bisognerebbe far osservare che la Corte – in applicazione cautelare della Convenzione contro il genocidio, che obbliga anche solo alla prevenzione di quel crimine – ha ingiunto a Israele di adoperarsi affinché sia appunto prevenuta (to prevent) la commissione di atti ipoteticamente ricadenti nel perimetro della Convenzione e, con riferimento a un solo profilo (il diretto e pubblico incitamento alla commissione di genocidio del gruppo palestinese), che ne sia punita la commissione.

I rilievi di plausibilità su cui la Corte basa la propria decisione, e su cui insistono in concerto i babbei del giornalismo combattente, gli influencer dell’attivismo filo-sgozzatori e gli avvocati farlocchi «dal fiume al mare», non riguardano affatto la fondatezza dell’accusa di genocidio, ma una triplice e del tutto diversa questione. E cioè: 1) il fatto che i diritti di cui si lamenta la violazione (cioè il diritto del gruppo palestinese a non essere esposto a deliberazioni genocidiarie, e ad aggressioni e deprivazioni rivolte ad attuarle) appaiano esistenti; 2) il fatto che il Sudafrica appaia legittimato a reclamarne la protezione; 3) il fatto che la situazione denunciata evidenzi che i diritti di cui è chiesta protezione siano esposti al rischio di un pregiudizio imminente e irreparabile.

Di qui, l’intervento cautelare di quel giudice internazionale, assunto sulla premessa (punto sessantuno della decisione) che la Corte NON era chiamata, in quella sede, a stabilire se effettivamente esistessero le violazioni denunciate («The Court is not called upon, for the purposes of its decision on the request for the indication of provisional measures, to establish the existence of breaches of obligations under the Genocide Convention»), ma soltanto a provvedere in urgenza su una situazione di rischio di pregiudizio dei diritti protetti dalla Convenzione.

Si potrebbe replicare che sono dettagli, minuzie da tecnici che non alterano la portata generale ed effettiva della faccenda. No: è esattamente il contrario. Proprio il carattere eminentemente politico della decisione (non nel senso che è politicamente orientata, anche se in realtà lo è, ma nel senso che si presta a un inevitabile uso politico) obbligherebbe a coglierne la portata effettiva e a non alterarla, come invece si fa appunto quando si prende la parola genocidio e la si sbatte in faccia all’accusato, dicendogli di porvi fine, dopo che la Corte spiega che la propria decisione non dice e non può dire nulla sull’esistenza del genocidio e si limita a imporre misure di prevenzione.

Che poi, se gli utilizzatori finali del bunga bunga sudafricano fossero appena più smaliziati (ma manco questo sono) avrebbero saputo identificare e utilizzare il vero nocciolo di inopinata ingovernabilità – e di seria problematicità gestionale, per Israele – della decisione della Corte: e cioè la parte dispositiva (punto uno, lettera a) in cui è fatto divieto a Israele di «uccidere membri del gruppo», un comando che è anche più radicale e implicante rispetto al cessate il fuoco reclamato dal pacifismo della polizia morale e dei comitati «Fuori i sionisti da Roma». Ma di quest’altra questione ci occupiamo un’altra volta.

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