Quando si parla del futuro energetico dell’Africa, bisogna tenere presenti una serie di criticità di cui tratterò in base alla mia personale esperienza pratica e di ricerca.
Innanzitutto, lavorando con grandi imprese, posso testimoniare che il dibattito sulla transizione non le entusiasma quanto dovrebbe.
Si prendano per esempio le banche, mi riferisco in particolare all’approccio di quelle nigeriane, dato che opero molto nell’Africa occidentale: molte banche si appassionano al tema della transizione energetica e del clima non tanto perché abbiano una smodata smania di salvare il mondo, quanto piuttosto perché sono a caccia di soldi, anche nelle forme della finanza climatica e verde che il Nord del mondo spesso usa come esca per portare l’attenzione delle banche su clima e transizione energetica.
Naturalmente, il quadro è molto allettante, così le istituzioni finanziarie ottengono fondi da investire su questi temi, ma in realtà li utilizzano per altri scopi. Le banche dicono esattamente quello che chi vuole farle interessare al clima vuole sentir loro dire, e poi usano la finanza per il clima per fare quello che loro, le banche, vogliono. E a chi valuta il loro impatto, le banche si assicurano di far spuntare tutte le caselle giuste sui moduli di valutazione: sanno ormai farlo molto bene.
Ed è per questo che, personalmente, sulle banche sono piuttosto cinico. Se si vuole motivare gli africani ad affrontare le sfide del cambiamento climatico, non li si può minacciare dicendo che se l’Africa non farà determinate cose l’intero mondo crollerà.
Questo perché, come si suol dire, «chi è a terra non teme la caduta», e attualmente questo è lo stato di molti africani. La minaccia di per sé non motiva: per far interessare gli africani alla transizione e al clima, bisogna parlare dei problemi dell’Africa.
Per esempio, nel discorso sulla transizione energetica e sul cambiamento climatico spesso si trascura il problema della disoccupazione, ma in Africa circa il sessanta percento dei giovani è disoccupato, il che è già di per sé un grosso problema.
Pertanto, se si pensa a come affrontare le sfide del cambiamento climatico senza collegare la questione ai temi dell’occupazione, della riduzione della povertà e ai problemi che stanno a cuore agli africani, si finirà per creare una ricetta per qualcosa di fittizio.
Saranno escogitati mezzi creativi per accedere di fondi, ma questo non significa necessariamente che le sfide della transizione energetica e del cambiamento climatico che tanto ci stanno a cuore saranno affrontate davvero.
È essenziale ampliare il discorso, perché il Nord del mondo ha inconsapevolmente ridotto la transizione energetica e la sostenibilità alla sola questione climatica, come se tutto ruotasse attorno al clima.
Ma ci sono anche altri temi: la sostenibilità sociale e la governance sono infatti parte integrante del discorso sulla sostenibilità generale, ed è anche importante estendere il discorso a comprendere le questioni di genere ed età. In breve, il discorso deve diventare più inclusivo e più rappresentativo di quanto non sia adesso.
È importante ascoltare anche la voce dei giovani, e a tal proposito di recente ho letto l’interessantissima ricerca condotta dalla Fondazione Enel su circa quarantadue mila giovani in tutto il mondo, il Global Youth Energy Outlook, disponibile online.
Mi preme evidenziare alcuni dati interessanti emersi da questa ricerca. Ritengo che la domanda più importante sia se i giovani sono interessati a clima e transizione energetica, e la risposta è sì. È una preoccupazione mondiale, quella per questi temi? Di nuovo, la risposta è sì.
In Africa, circa l’ottantacinque per cento dei giovani si dice moderatamente o molto preoccupato per le questioni legate ai cambiamenti climatici. Alla domanda se pensino che i loro paesi o territori investano a sufficienza nella lotta ai cambiamenti climatici, il sessantanove per cento risponde che servono maggiori investimenti e il quattordici per cento afferma che il loro paese non fa alcun investimento.
Alla domanda se ritengano che i decisori politici tengano conto delle prospettive e delle opinioni dei giovani, solo l’uno per cento risponde di sì, mentre il trentaquattro per cento sostiene che a considerare la voce dei giovani sono le aziende.
E poi c’è la domanda sulle opportunità per i giovani di lavorare alle questioni di energia sostenibile in modo diretto, insieme con i decisori politici: il quaranta per cento afferma che tali opportunità esistono e il quarantasei per cento risponde che queste opportunità esistono presso le aziende.
Ma c’è un’altra domanda: a chi spetta ridurre le emissioni di gas serra e risolvere i problemi correlati? Dalle risposte a questa domanda emerge che secondo molti giovani africani tale responsabilità spetti innanzitutto al governo e poi, a seguire, all’industria e ad altri attori.
Ritengo questo un punto preoccupante, perché in molti paesi africani il governo viene indicato come la maggior barriera alla realizzazione di una transizione energetica sostenibile. Sommando tutti i fattori, emerge un quadro paradossale: il governo è visto come un problema ma anche come la soluzione, fatto decisamente curioso, anche perché spesso alle buone idee per il clima e la transizione energetica molti paesi africani non danno alcuna priorità.
Attualmente sono consulente di un governo sub-nazionale in Nigeria e cerco di inserire il più possibile la sostenibilità in quello che facciamo, ma a quanto constato non interessa a nessuno. La Nigeria abbonda di petrolio e, quando si pensa a come fornire energia al Paese, questione centrale nel dibattito sulla transizione energetica, la risposta è utilizzare il petrolio e preoccuparsi delle conseguenze in un secondo momento. È questo il paradosso con cui abbiamo a che fare. Ma che cosa fanno i giovani in proposito? Conosco una giovane donna africana che si è data l’obiettivo di produrre localmente
soluzioni di energia solare, ma incontra difficoltà perché i suoi prodotti sono decisamente più costosi di quelli importati dalla Cina e persino dall’Europa.
Conosco un altro giovane africano che suggerisce di non produrre i materiali localmente ma di utilizzare materiali importati per fabbricare prodotti destinati alla popolazione locale. Questi due giovani si concentrano una sulla realizzazione di soluzioni indigene e l’altro sull’uso di soluzioni d’importazione.
La transizione energetica africana procede a passo lento, ma non è un tunnel buio e senza uscita: con la narrativa giusta, le giuste risorse e i giusti fattori abilitanti, la transizione energetica africana vedrà infine la luce!
Kenneth Amaeshi è uno studioso di spicco nell’ambito del business e della finanza sostenibile nel Sud globale. Amaeshi è titolare della Cattedra di Business and Sustainable Development and Director Scaling Business in Africa presso l’Università di Edimburgo. Inoltre, è Visiting Professor of Leadership and Financial Markets in Africa presso la London School of Economics, nonché Professore Onorario di Business in Africa presso la Graduate School of Business dell’Università di Città del Capo, in Sudafrica.