Camillo di Christian RoccaMichael Kelly, uno dei nostri

Michael Kelly è diventato Michael Kelly nel 1991, durante la prima guerra del Golfo. Michael Kelly è morto da Michael Kelly ieri l’altro, a 46 anni, durante la seconda guerra del Golfo. E’ il primo giornalista americano ucciso in Iraqi Freedom, ma i giornali ieri lo hanno omaggiato per un altro motivo: Kelly era uno dei migliori editorialisti del paese. Secondo Peggy Noonan, "era un grande, e sarebbe diventato uno dei più grandi direttori di quest’epoca".
Kelly direttore lo è stato fino a un paio di mesi fa, all’Atlantic Monthly, mensile così prestigioso che si dice sia "uno dei cinque migliori prodotti del paese". Ma ha scelto di tornare a fare il reporter, di "aggregarsi" alla 3a divisione di fanteria, di raccontare l’Iraq dove era diventato quel Michael Kelly, quell’opinionista liberal, di sinistra, ma senza paraocchi né peli ideologici sulla penna. Kelly faceva diventare matti quelli che non la pensavano come lui, perché non riuscivano a etichettarlo. Era di sinistra, ma è stato uno dei più grandi fustigatori dei Clinton. Non accettava mai  ha scritto Peggy Noonan  la Versione Ufficiale della Realtà, così come scritta dai portatori del Verbo in servizio permanente. Gli piaceva non piacere, e non era uno che faceva prigionieri con i suoi articoli. Menava. Un paio di mesi fa scrisse cose indicibili sul passato rivoluzionario del cincischiatore Joschka Fischer.
Kelly non era un neoconservative, uno di quelli che piacciono tanto qui al Foglio e che gli altri giornali italiani descrivono come fanatici o piduisti. Kelly era un Democratico cattolico vecchio stile, faceva parte integrante dell’establishment giornalistico di Georgetown. Suo padre era columnist del vecchio Washington Daily News, sua madre saggista e attivista per i Democratici. Il mondo di Kelly era questo, una delle sue migliori amiche era Maureen Dowd, gran dama radical chic del New York Times. E lui stesso ha sempre scritto per la crema del giornalismo liberal della East Coast: New York Times, New Yorker, Washington Post, New Republic e Atlantic Monthly.

"A volte la guerra è un imperativo morale"
Eppure non era succube di quell’ambiente, ha sempre rifiutato di sottomettersi all’egemonia culturale che pervade, in America come in Italia, l’élite giornalistica. Con Andrew Sullivan, l’altro irregolare del giornalismo americano, era "d’accordo il 95 per cento delle volte". Sullivan era vice direttore di New Republic quando nel 1991 ricevette un fax da Kelly, allora giovane di belle speranze. Aveva avuto un’esperienza televisiva alla Abc, che lasciò quando gli dissero che nel giornalismo tv un buon parrucchiere conta quanto gli appunti presi sul taccuino. Kelly chiese a Sullivan se a New Republic fossero interessati a dei reportage dal Golfo. Lui sarebbe andato comunque, da freelance. Sullivan aveva letto un paio di formidabili articoli di Kelly su GQ, un ritratto di Ted Kennedy e uno del sindaco di Chicago, Richard Daley. Gli disse di sì. I racconti di Kelly, uno dei rari giornalisti americani sul campo, erano vivi e i lettori amarono le sue corrispondenze.
Nel 1992, con un mucchio di premi in bacheca, seguì per il New York Times la campagna presidenziale, e tre anni dopo è diventato una delle firme di punta del New Yorker di Tina Brown, secondo la quale Kelly aveva, "come Evelyn Waugh, la capacità di trovare sempre un dettaglio che racconta la storia". Nel 1996 ha diretto New Republic, dal quale fu cacciato dopo 10 mesi per una feroce campagna contro i Clinton e Al Gore (falsi, immaturi, pieni di sé, cinici, vuoti e corrotti) fregandosene del fatto che l’editore fosse il miglior amico del viceprez.
All’Atlantic Monthly ha fatto miracoli, l’anno scorso ha vinto tre National magazine awards e quest’anno è in lizza in 7 categorie, anche per il ritratto di Saddam di Mark Bowden pubblicato dal Foglio l’estate scorsa e per uno strepitoso numero post 11 settembre. Kelly avrebbe potuto restare in poltrona, ma non poteva mancare al secondo tempo della guerra che lo ha fatto diventare Michael Kelly: "Ora sono certamente un falco, così come ai tempi del Vietnam senza dubbio ero una colomba. Mi ha cambiato l’esperienza di guerra, non come soldato. Ho seguito il Golfo come reporter, ed è stata quell’esperienza, consolidata da quello che ho visto in Bosnia, a convincermi che la guerra, qualche volta, è un imperativo morale".

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