Milano. George Bush sapeva che Osama bin Laden avrebbe attaccato l’America e, nell’ipotesi in cui lo avesse saputo, sarebbe stato in grado di evitare l’11 settembre? A queste domande si può rispondere sia con un sì sia con un no. La cosa che non si può fare è spacciare l’ultima rivelazione, il contenuto del memo presidenziale del 6 agosto 2001, declassificato il giorno di Pasqua, come se fosse uno scoop che inchioda l’Amministrazione alle sue responsabilità. Il documento non contiene nessuna novità, nonostante i giornali internazionali si siano parecchio agitati. L’esplicito riferimento alla possibilità di un dirottamento aereo non è rivolto a un attacco suicida ma "per ottenere il rilascio dello sceicco cieco e di altri estremisti detenuti negli Stati Uniti". La notizia, peraltro, è tutt’altro che nuova. Non è affatto uno scoop. Il Foglio, per esempio, ne ha parlato più volte, l’ultima il 25 marzo con queste parole: "Nell’estate 2001 a Bush arrivò un rapporto su un’azione spettacolare di al Qaida, ma la Cia pensava a un attentato su obiettivi americani all’estero o a un dirottamento aereo per liberare prigionieri".
Il documento del 6 agosto non è soltanto generico, ma fa risalire le minacce di al Qaida al "1997 e al 1998", anni in cui alla Casa Bianca c’era Bill Clinton. Non è vero, come ha titolato un giornale italiano, che nel memo c’era un esplicito riferimento al World Trade Center o, meglio, c’era ma riguardava il primo attacco alle Torri, quello del 1993. La notizia che bin Laden stesse reclutando "giovani americani musulmani per gli attacchi" è del "1998". In ogni caso nessuno dei 19 dirottatori dell’11 settembre era americano. Il memo non contemplava l’ipotesi dell’uso di kamikaze, né conteneva altri elementi che si sarebbero verificati l’11 settembre. Indicava invece, come possibili obiettivi, "edifici federali di New York", ma il World Trade Center non è federale. La rivista liberal New Republic ha scritto ieri che "nessuna persona ragionevole poteva leggere quel documento dell’agosto 2001 e poi prevedere cosa sarebbe successo un mese più tardi".
"E’ stato un fallimento dell’immaginazione", hanno scritto due persone distanti come il liberal Thomas Friedman sul New York Times e la conservatrice Peggy Noonan sul Wall Street Journal. In realtà, il 14 agosto del 2001, almeno un opinionista aveva immaginato quello che poi sarebbe successo solo 28 giorni dopo. Sul New York Post John Podhoretz scrisse che "la nostra superiorità militare ci aiuterà poco se un futuro rivale decidesse di verificare l’anima della nostra nazione usando i kamikaze per attaccare civili americani sul suolo americano". Oggi Podhoretz dice che l’immagine era retorica e che in realtà "non avrebbe mai creduto che potesse accadere". Questo non vuol dire però che Bush, nei sette mesi e mezzo alla Casa Bianca, abbia fatto il massimo per prevenire un attacco, e certamente lo stesso discorso si deve fare per Bill Clinton, il quale ha avuto otto anni di tempo per affrontare e risolvere la minaccia di al Qaida.
Ma se entrambi hanno fatto poco, immaginiamo, come ha scritto Gregg Easterbrook, autore di "The Progress Paradox", che il 7 agosto del 2001 George Bush, sulla base del memo del giorno prima, avesse bombardato i campi di al Qaida in Afghanistan ed emanato un Patriot Act per arrestare più facilmente gli arabi sospetti presenti in territorio americano. Che cosa sarebbe successo? Quali furiose reazioni, quali gigantesche manifestazioni, quali violazioni della legalità internazionale avrebbe procurato quella decisione che gli odierni accusatori di Bush ora gli imputano di non aver preso? Quel memo, come ha detto Condoleezza Rice, non avvisava di un obiettivo specifico né di un pericolo urgente. Se Bush avesse invaso l’Afghanistan avrebbe fatto più che bene e forse, ma non è detto, sarebbe riuscito a evitare l’11 settembre, certo non avrebbe evitato le accuse di essere un criminale di guerra.
13 Aprile 2004