Milano. Tra quattro mesi esatti sapremo chi sarà il nuovo presidente americano, di nuovo George W. Bush oppure il senatore Democratico del Massachusetts, John Forbes Kerry. Oggi, a meno di clamorose novità sul fronte della guerra al terrorismo, c’è solo da affidarsi ai sondaggi per avere un’idea di come stia andando la campagna elettorale. In questi ultimi mesi le intenzioni di voto degli americani hanno registrato prima un forte vantaggio di Bush, un pareggio, un deciso allungo di Kerry, infine un sostanziale pareggio. Capita, peraltro, che un istituto demoscopico dia cinque o sette punti di vantaggio a un candidato mentre altre rivelazioni vedano in testa l’avversario, magari con il medesimo margine. C’è, poi, l’incognita di Ralph Nader, il terzo incomodo che quattro anni fa tolse ad Al Gore i voti decisivi per vincere in Florida e in New Hampshire. Il caso Nader stavolta è ancora più complicato. Da un lato sembra impossibile che il difensore dei diritti dei consumatori possa ripetere l’exploit del 2000, intanto perché non ha più l’appoggio del suo partito, il Green Party, che invece si presenta da solo ma soltanto negli Stati in cui non può dare fastidio a Kerry, poi perché gran parte della sinistra americana pur di sconfiggere Bush è disposta a turarsi il naso e votare chiunque, finanche Kerry, il candidato che non scalda né i cuori né le menti dei liberal. Eppure, nonostante ciò, i sondaggi concedono a Nader una percentuale superiore a quella ottenuta quattro anni fa perché più Kerry si sposta al centro per non sfigurare di fronte al presidente di guerra, più i suoi potenziali elettori di sinistra si disaffezionano e si lasciano tentare da Nader. Pur non avendo l’appoggio dei Verdi, Nader ha scelto come suo vice Peter Miguel Camejo, uno dei leader di quel partito e può contare sul voto di due icone della sinistra antagonista americana, Noam Chomsky e Howard Zinn. Ma c’è un problema: per potersi presentare ovunque Nader ha bisogno del sostegno formale di un partito oppure di raccogliere le firme Stato per Stato. Finora la sua presenza è certa in sei Stati, uno dei quali è la Florida, in altri tre i Democratici hanno fatto ricorso mentre un po’ ovunque i Repubblicani cercano indirettamente di aiutarlo. Nader, nel frattempo, s’è accordato con il Reform Party, partito di estrema destra che in passato ha sostenuto Ross Perot e Pat Buchanan.
Il fattore Nader è decisivo per stabilire chi vincerà le elezioni. I sondaggi, infatti, sono di due tipi: ci sono quelli che prevedono il testa a testa Bush-Kerry e quelli che considerano anche la presenza di Nader. Nel primo caso la situazione è in equilibrio, al punto che facendo una media tra tutti i sondaggi condotti fino al 29 giugno, Bush è in vantaggio dello 0,8 per cento (46,8 contro il 46 di Kerry). Mentre se si considera la corsa a tre, la media tra i sondaggi, vede Bush in testa di 1,3 punti (45 per cento contro il 43,7 di Kerry e il 3,7 di Nader).
223 delegati per Bush, 212 per Kerry
Ma i punti percentuali possono anche ingannare. Può capitare, come successe quattro anni fa ad Al Gore, di prendere più voti popolari dell’avversario, ma di essere sconfitti nel conteggio dei delegati che ogni singolo Stato attribuisce al candidato vincitore. La partita si gioca, dunque, dentro i 50 Stati più Washington per conquistare la maggioranza dei 538 grandi elettori in palio. A grandi linee gli Stati sulle due coste sono saldamente in mano ai Democratici, in mezzo, come dicono gli analisti americani, è tutto Alabama, cioè feudo repubblicano, Bush country. Ma ci sono diciassette eccezioni, diciassette Stati chiamati "swing states" che sia i sondaggi sia le precedenti elezioni considerano in bilico o con una differenza tra l’uno o l’altro candidato inferiore al 5 per cento. Qui le macchine elettorali dei due partiti investono tempo e denaro, è questo il campo di battaglia. Trentaquattro Stati, al contrario, sono di fatto già assegnati perché è impensabile che Bush possa vincere a New York e in California (a meno di un improbabile e clamoroso effetto Schwarzenegger) o perdere in Texas. Dunque 23 Stati si possono fin d’ora assegnare a Bush e 11 a Kerry, per un totale di 192 delegati per il presidente e di 162 per Kerry. La maggioranza da raggiungere è 270. Restano appunto i 17 Stati in bilico. Le previsioni sono difficili, ma in quattro di essi al momento risulta in vantaggio Bush per un totale di 31 delegati, mentre in sette sembra che Kerry possa prevalere e ottenere 50 delegati. A questo punto Bush avrebbe 223 grandi elettori e Kerry 212.
Se i sondaggi odierni fossero confermati, Kerry conquisterebbe l’Arkansas (sei delegati) e il New Hampshire (quattro delegati) che quattro anni fa andarono a Bush. Il presidente, invece, non sfonderebbe in nessuna delle roccaforti democratiche. Restano, dunque, sei Stati chiave, oggi difficilmente assegnabili all’uno o all’altro candidato. Intanto il Michigan (17 delegati), la Pennsylvania (21) e il Wisconsin (10), che nel 2000 furono conquistati da Gore, poi la Florida (25 voti), l’Ohio (20) e il Missouri (11), vinti da Bush. Se Bush riuscisse a mantenere questi tre Stati sarebbe rieletto con 279 voti. Oltre alla Florida bisognerà guardare con attenzione l’Ohio. Se lì Bush dovesse perdere sarebbe spacciato, perché non c’è mai stato un presidente repubblicano che sia stato sconfitto in Ohio, storica roccaforte oggi in difficoltà a causa di 250 mila posti di lavoro persi in questi quattro anni. Ma Bush potrebbe rifarsi in Pennsylvania, il cui ex governatore è l’uomo che negli ultimi anni ha assunto più di ogni altro: Tom Ridge, segretario del nuovo ministero dell’Interno.
Sarà decisiva la scelta di Kerry sul vicepresidente. Sondaggi alla mano gli converrebbe nominare Dick Gephardt, vecchio deputato del Missouri, Stato che ha Bush in vantaggio di un irrisorio 0,8 per cento. Poi c’è l’ipotesi John Edwards, il quale potrebbe aiutare Kerry in Carolina del Nord (15 delegati), dove nel 2000 Bush vinse con un margine che ora si è ridotto al 5 per cento.