L’atto d’accusa più potente contro le Nazioni Unite non è né di George W. Bush né degli ideologi neoconservatori. Le parole che meglio di ogni altre definiscono il fallimento dell’Onu sono del Segretario Generale, Kofi Annan. In occasione del sessantesimo anniversario del genocidio degli ebrei, ricordato con una sessione speciale dell’Assemblea Generale, Annan ha detto che "dai tempi dell’Olocausto, con grande ignominia, il mondo ha fallito più di una volta nel prevenire o nel porre fine a dei genocidi, per esempio in Cambogia, in Ruanda e nell’ex Jugoslavia". Quel compito era dell’Onu. Eppure si è tornati a dire "mai più" dopo il bagno di sangue in Cambogia. "Mai più" è stato ripetuto dopo il genocidio in Ruanda. "Mai più" è stato il ritornello dopo la carneficina in Bosnia. "Mai più" si continua a dire dopo i massacri di massa in Sudan. Pochi giorni dopo quelle parole di Annan, una Commissione Onu ha stabilito che il massacro in Darfur, cioè lo sterminio dei cristiani da parte degli islamici ispirati dal regime sudanese, non è da qualificarsi come genocidio, nonostante gli Stati Uniti e le organizzazioni per i diritti umani abbiano sostenuto il contrario. Questo del Sudan è soltanto l’ultimo dei tanti fallimenti dell’Onu, un’organizzazione che nacque proprio per impedire e prevenire un altro Olocausto ma che, di fatto, non ha mai funzionato.
Le Nazioni Unite sono fallite. Bisognerebbe prenderne atto, dirlo chiaramente, non sprecare tempo con riforme e alchimie istituzionali che non saranno mai approvate e che non cambieranno di una virgola la sostanza, che è questa: rispetto alle grandi questioni, come la sicurezza e la pace, l’Onu è un ente inutile, anzi dannoso. E’ un’Organizzazione internazionale che ha tradito lo spirito dei suoi fondatori, che ha rinnegato i principi contenuti nella propria Carta istitutiva. Le Nazioni Unite andrebbero salutate, poi chiuse e infine sostituite con qualcosa di diverso, magari con un’Alleanza delle Democrazie o, ancora meglio, con un’Organizzazione Mondiale delle Democrazie. Non va cestinato tutto, ovviamente. Ci sono agenzie, fondi e programmi umanitari che funzionano. Non tutti e non sempre, ma vanno rafforzati, sostenuti, finanziati e soprattutto meglio gestiti. Sono da chiudere il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale, i principali complici del caos internazionale. In 50 anni hanno giustificato il terrorismo, alimentato l’antisemitismo, premiato le nazioni che limitano i diritti umani, sprecato miliardi di dollari e ora sono implicati in scandali di corruzione (oil-for-food) e sessuali (in Congo).
Se non si agisce subito c’è il rischio che l’irrilevanza politica del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale travolga anche le agenzie umanitarie, come ha dimostrato la crisi nell’Asia meridionale colpita dal maremoto. Ventiquattro ore dopo il disastro, un funzionaricchio delle Nazioni Unite ha sfruttato l’occasione per guadagnarsi il suo quarto d’ora di celebrità e accusare l’America di essere stata "spilorcia", di non aver voluto aiutare le popolazioni devastate dallo tsunami il 26 dicembre 2004. La risposta di George W. Bush e degli altri paesi donatori è stata quella di creare una coalizione ad hoc per gli aiuti, sul modello di quella che aveva liberato l’Iraq. Senza l’Onu.
Non è ripicca, ma un nuovo modello d’azione internazionale. E’ la terza volta che succede nel giro di un anno e mezzo. La leadership americana ha organizzato prima la liberazione dell’Iraq e subito dopo anche la Proliferation Security Initiative, la coalizione dei paesi preoccupati di fermare la corsa alle armi di sterminio da parte degli Stati ostili all’occidente. Non è soltanto una fissazione americana. Con gli Stati Uniti, tra gli altri, ci sono Gran Bretagna, Italia e anche la Francia. La coalizione dei soccorsi in Asia ha raccolto i soldi, organizzato sul campo gli aiuti e ha relegato l’Onu a un ruolo secondario.
Il primo dicembre scorso, ad Halifax, in Canada, il presidente americano George Bush è stato molto chiaro: "Le Organizzazioni multilaterali possono fare un grande bene nel mondo. Ma il successo del multilateralismo non si valuta soltanto dal metodo seguito, ma dai risultati raggiunti. L’obiettivo delle Nazioni Unite e delle altre istituzioni deve essere quello della sicurezza collettiva, non quello del dibattito infinito". Concetto ribadito dal nuovo Segretario di Stato Condoleezza Rice al momento della sua presentazione al Senato: "Uniremo la comunità delle democrazie per costruire un sistema internazionale che si basi su valori condivisi e sullo Stato di diritto. E rafforzeremo la comunità delle democrazie per combattere le minacce alla nostra sicurezza e alleviare l’assenza di speranza che alimenta il terrorismo".
Il punto è che in sessanta anni non c’è stata crisi importante che abbia visto Consiglio di Sicurezza e Assemblea Generale protagonisti nel difendere la sicurezza globale. Ci sono state tre eccezioni, ciascuna delle quali con parecchie riserve: la guerra di Corea, ma solo perché il Consiglio di Sicurezza allora era boicottato dai sovietici, l’Iraq nel 1991 e Haiti nel 1994, entrambi all’indomani del crollo dell’impero sovietico. L’elenco dei disastri provocati inizia già nel 1948, quando l’Onu non difese la propria risoluzione su Israele e su Gerusalemme, e arriva fino al riconoscimento del diritto al terrorismo con la risoluzione 2708 del 1970 che ha autorizzato chi lotta per l’autodeterminazione a combattere con "ogni mezzo necessario a disposizione". Ci sono stati colpi di Stati in mezzo mondo, sponsorizzati ora dal Cremlino ora da Washington, ma l’Onu non ha mai mosso un dito.
Le Nazioni Unite non hanno strumenti per far rispettare le proprie decisioni. Non ne hanno nessuno. Il Segretario Generale, Javier Pérez de Cuéllar, descrisse il Consiglio di Sicurezza come un organo "incapace di intraprendere azioni decisive per risolvere i conflitti internazionali".
Nonostante le apparenze, George W. Bush ha avuto fin qui un approccio più conciliante con il Palazzo di Vetro rispetto ai suoi predecessori. Avrebbe potuto ignorarlo, farne a meno, ridurlo a ente inutile, specie dopo che il Consiglio di Sicurezza aveva deciso di non dare seguito alla sua stessa risoluzione, la diciassettesima, quella che dava "l’opportunità finale" al regime di Saddam e che prevedeva "gravi conseguenze" per la "violazione concreta" della decisione del Consiglio di Sicurezza numero 1441. Ma non lo ha fatto. Liberata Baghdad con una "coalizione dei volenterosi" formata per l’occasione, Bush è subito tornato all’Onu invece che procedere da solo. Prima ha ricevuto la legittimazione dell’occupazione (risoluzione 1483), poi il riconoscimento del governo provvisorio e l’invio di una missione dell’Onu (risoluzione 1500) e, infine, il calendario del processo democratico ed elettorale (1511). Nel 2003, Bush ha salvato due volte la credibilità dell’Onu: prima facendo rispettare le decisioni prese dalle Nazioni Unite, perché "quando l’Onu promette gravi conseguenze, devono seguire gravi conseguenze". Poi coinvolgendo il Palazzo di Vetro in Iraq. Se non lo avesse fatto, l’Onu sarebbe rimasto fuori dal processo di democratizzazione del medio oriente e quindi condannato all’irrilevanza politica nell’area.
In alcuni casi l’Onu non è stato soltanto irrilevante ma ha contribuito a creare disastri e a diffondere l’antisemitismo. Quando nel 1967 il dittatore egiziano Gamal Abdel Nasser, uno che non nascondeva "l’obiettivo di distruggere Israele", chiese all’Onu di ritirare i Caschi blu presenti nell’area ottenne subito quello che voleva, nonostante avesse già schierato 80 mila uomini e 550 carri armati al confine con lo Stato ebraico. Il genocidio ruandese è frutto del ritiro delle truppe Onu da Kigali e delle scelte dell’allora capo del Dipartimento delle Operazioni di Peacekeeping, cioè Kofi Annan. L’11 gennaio del 1994 il generale canadese che guidava il contingente Onu in Ruanda, Romeo Dallaire, inviò un telex al vice di Annan, Iqbal Riza, per avvertire che gli hutu erano pronti a "sterminare" i tutsi. In quel fax c’era scritto che gli hutu avrebbero potuto "uccidere mille persone in venti minuti". Lo fecero. Ma l’Onu rimase a guardare. La stessa cosa capitò in occasione dei settemila morti di Srebenica, nel luglio del 1995. I generali dell’Onu invitarono i bosniaci musulmani a raggrupparsi in alcune città, tra cui Srebenica, in modo da facilitare le operazioni di difesa, ma permisero agli assassini serbi di passare indisturbati. Pensate al Ruanda, ricordatevi la Bosnia e ora pensate a che cosa potrebeb accadere se a Baghdad le operazioni di difesa della popolazione fossero affidate alle Nazioni Unite.
Certo, c’è stato qualche timido successo negli anni Novanta, ma soltanto ogniqualvolta l’intervento è servito a mantenere la pace in situazioni dove le parti in conflitto avevano già deciso di cessare i combattimenti (in Cambogia, a Timor Est, in Salvador, in Mozambico, in Namibia). Il peacekeeping, infatti, è questo: è possibile soltanto quando le parti belligeranti fermano il conflitto e accettano l’ingresso dei Caschi blu.
I Segretari Generali che hanno preceduto Kofi Annan possono vantare altrettanti fallimenti. Uno per tutti: l’austriaco Kurt Waldheim. Fu eletto nel 1971, ma solo nel 1986, durante la campagna elettorale che lo elesse presidente dell’Austria, si scoprì che aveva partecipato (o perlomeno ne era al corrente) a crimini di guerra nei Balcani. La scrittrice Shirley Hazzard, nel libro "Countenance of Truth", sostiene che Waldheim fosse ricattato dai sovietici, i quali in cambio del silenzio gli chiesero di chiudere un occhio sulle violazioni dei diritti umani e su tutte le altre cose che avrebbero potuto imbarazzare l’Impero comunista. L’Onu, insomma, era guidata da un nazista imbroglione. Niente male per il governo del mondo. Durante il doppio mandato di Waldheim fu approvata la famigerata risoluzione che comparava il sionismo al razzismo.
Le Nazioni Unite sono un’idea americana, lo strumento ideato per promuovere i valori e i principi di libertà e di democrazia su scala globale. Il presidente americano Franklin Delano Roosevelt, il primo gennaio del 1942, fu il primo a usare la definizione "Nazioni Unite", un mese dopo l’attacco di Pearl Harbor. Lo fece per presentare l’alleanza angloamericana contro il nazifascismo. Gli architetti dell’Onu, allo stesso modo, erano uniti dall’aver fatto la guerra alla Germania nazista, l’archetipo del male assoluto del ventesimo secolo. A differenza della Lega delle Nazioni, che aveva soltanto il potere di imporre sanzioni, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è stato disegnato proprio per poter usare "ogni mezzo necessario", inclusa la forza militare, per contrastare le aggressioni. Alla conferenza di Washington, nella residenza di Dumbarton Oaks, Roosevelt spiegò così ai cronisti che cosa aveva in mente: "Se qualche aggressore cominciasse a perdere la testa e cercasse di acchiapparsi qualche territorio oppure invadesse i suoi vicini", la nuova organizzazione "lo fermerebbe prima ancora di iniziare". L’Onu fu fondata per fare quello che non è mai riuscita a fare: proteggere la sicurezza degli Stati membri ed evitare, anche con azioni preventive, le aggressioni militari.
L’Onu nacque in un momento di straordinaria "moral clarity", di chiarezza morale, in cui i fondatori seppero distinguere senza-se-e-senza-ma tra l’aggressione dei nazifascisti e il proprio ruolo di liberatori. Sono nate in un mondo che subito dopo è cambiato radicalmente, non appena l’occidente s’è reso conto che il gigante sovietico faceva partita a sé. La Guerra fredda ha congelato l’Onu fino a fargli perdere ogni funzione vitale. In quegli anni l’Onu non ha mai funzionato e il Consiglio di Sicurezza si è riunito poco.
Caduta l’Unione Sovietica è sembrato, per un momento, che il ruolo dell’Onu potesse davvero diventare quello di governo mondiale e di difesa della pace e della sicurezza. Dopo 45 anni di paralisi, il presidente americano George H. W. Bush (padre) cominciò a parlare di "nuovo ordine mondiale" e sembrò che il Consiglio di Sicurezza potesse finalmente lavorare in armonia. L’invasione irachena del Kuwait fu prontamente condannata, anche se l’Onu non fece nulla per evitarla. In ogni caso si trovò, per la prima volta, un accordo per una mobilitazione internazionale contro un dittatore espansionista. Il ricorso all’Onu di Bush però fu strumentale. Il presidente americano decise di portare la questione al Consiglio di Sicurezza prima ancora di andare al Congresso perché certo che sarebbe stato più facile convincere l’indebolita Unione Sovietica, la Cina, la Francia e la Gran Bretagna all’Onu, piuttosto che i deputati e i senatori del Partito Democratico a Washington. Bush ebbe ragione. Solo grazie al voto del Consiglio di Sicurezza, che diede il via libera all’intervento armato, il presidente riuscì a ottenere una risicata autorizzazione dal Senato americano. Javier Pérez de Cuéllar, però, rifiutò di concedere alla coalizione americana la bandiera dell’Onu: "Non è stata una guerra dell’Onu disse successivamente al Parlamento di Strasburgo Il generale Schwarzkopf non aveva il Casco blu".
Questa improvvisa centralità del Consiglio di Sicurezza è durata poco, nonostante il presidente Bill Clinton nel 1992 avesse deciso di concentrare il suo primo mandato sulle questioni di politica interna e quindi fosse pronto a delegare all’Onu la soluzione dei problemi internazionali. L’allora Segretario Generale, Boutros Boutros-Ghali, vide in questa nuova attitudine americana una "straordinaria opportunità di espandere, adattare e rinvigorire il lavoro delle Nazioni Unite". Ma già l’anno successivo il caso della Somalia ruppe l’idillio. Clinton avrebbe voluto ritirare le truppe che Bush aveva inviato per scongiurare la strage per fame causata dalla guerra civile. Boutros-Ghali convinse Clinton a lasciare in Africa un contigente per difendere la forza di pace delle Nazioni Unite. L’operazione fallì nell’ottobre del 1993, quando 18 Rangers dell’esercito americano e mille somali furono uccisi sulle strade di Mogadiscio, nella violenta battaglia vista al cinema nel film di Ridley Scott, Black Hawk Down. Poi ci furono il genocidio in Ruanda e la mattanza nell’ex Jugoslavia. Gli Stati membri, specie quelli europei, insieme con le Nazioni Unite, condividono la responsabilità di non aver impedito la carneficina in Bosnia tra il 1992 e il 1995. Mentre le fazioni combattevano, il Consiglio di Sicurezza impose l’embargo alla vendita delle armi. La conseguenza è stata disastrosa. Gli aggressori, cioè i serbi, coloro che volevano attuare la pulizia etnica della Bosnia, non subirono alcun danno dall’embargo, perché avevano a disposizione l’arsenale del vecchio esercito jugoslavo. Invece i bosniaci musulmani, le vittime, erano a corto di armi già prima dell’embargo. Il divieto di acquistarle li privò di ogni possibilità di difesa. Il record di fallimenti e di tradimenti dello spirito fondativo dell’Onu, però, non impedisce a molte persone, specie in Europa, di continuare a vedere questo Moloch burocratico e inefficace e disastroso come la panacea di tutti i mali, come lo spirito santo che detta legge, come la cassazione suprema. E’ come se l’egida dell’Onu fosse un segno divino da aspettare, accettare e non discutere mai, invece che il semplice marchio su una decisione che ciascuno dei 191 governi membri, compresi quelli che non rappresentano i loro popoli, contribuisce a prendere. Le scelte possono essere giuste o sbagliate, possono essere rispettose della Carta istitutiva dell’organizzazione oppure discostarsene. Il bilancio è impetuoso: troppo spesso si sono allontanate da quei principi.
1 Marzo 2005