New York. E’ lecito dare informazioni false, inventare scoop, esagerare episodi, insomma: dire bugie? Un giornalista può aggiustare, piegare e manipolare fonti, notizie e particolari di una storia per trasmettere al pubblico l’idea di una "verità più ampia", diversa e ideologica rispetto a quella che i semplici fatti lasciano intuire? Seymour Hersh, decano dei giornalisti investigativi, dice apertamente di sì. Ed è uno shock per chi, specie in Italia, considera il grande "pistarolo", cioè l’uomo che ha anticipato lo scandalo di Abu Ghraib, un esempio di giornalismo retto, accurato e affidabile.
Il suo caso è diverso, più complicato direi più raffinato, rispetto a quello di Jayson Blair, della Bbc, del Daily Mirror e di Dan Rather. Il cronista Blair imbrogliava i lettori del New York Times per ansia di successo, mentre i vertici del giornale coprivano il loro pupillo di colore per non danneggiare la legge liberal che favorisce le assunzioni delle minoranze etniche. La Bbc e il Daily Mirror erano mossi da una cieca e ideologica opposizione alla guerra in Iraq, mentre Dan Rather è stato vittima del pregiudizio anti Bush. Nessuno di loro ha rivendicato il diritto di raccontare balle. Ciascuno, a suo modo, s’è battuto come un leone prima di ammettere l’inganno o l’errore. Hersh invece lo dice apertamente, anzi lo rivendica: spararla grossa si può, è corretto. Alcuni mesi fa il New York Observer, dopo le denunce dei soliti blogger, si era accorto che qualcosa non tornava nelle cose che Hersh raccontava nelle sue frequenti conferenze in giro per l’America. Nelle università e ai raduni della Aclu, per la cifra di 15 mila dollari a serata, Hersh snocciolava, e continua a farlo, fantasmagorici scoop anti Bush. Videocassette di prigionieri stuprati ad Abu Ghraib dai soldati americani. Prove che al Zarqawi in realtà non esiste se non nella propaganda del Pentagono (e dei saddamiti). Certezze sul ruolo di Karl Rove e del presidente nelle torture ai detenuti islamici. Notizie inquietanti sulla misteriosa sparizione di un miliardo di dollari in contanti dalle casse irachene. Minacce della Casa Bianca contro i giornalisti e, infine, stragi americane a sangue freddo che sono costate la vita a trentasei iracheni innocenti. Solo che questi scoop non sono veri o, quantomeno, non esistono prove. Queste notizie, infatti, Hersh non le ha mai pubblicate sul suo giornale, il settimanale New Yorker. Prima spiegazione maligna: il New Yorker è un giornale famoso per i suoi fact-checkers, gli inflessibili e pedanti controllori dei fatti riportati negli articoli dei propri giornalisti. Seconda spiegazione autentica, cioè proveniente da Hersh: "Sto solo parlando, non sto scrivendo". Secondo Hersh, infatti, ci sono due livelli di etica professionale cui si deve attenere un giornalista. Quando scrive deve essere accurato e preciso, tanto che quei fantastici scoop lui non li ha mai messi nero su bianco. Quando parla in televisione o in radio, all’università o a una manifestazione pubblica, invece può dire ogni cosa: "Qualche volta cambio eventi, date e luoghi in un certo senso per proteggere la gente ha detto Hersh a un giornalista del New York Magazine che a questa vicenda ha dedicato un lungo servizio Se scrivo non posso cambiare le carte in tavola, ma se parlo posso certamente farlo". Hersh non trova bizzarro cambiare dettagli e fornire ricostruzioni false fino al punto da rendere la storia non più verificabile: "Credo che sia assolutamente coerente con quello che faccio professionalmente. Sto solo comunicando un’altra realtà che conosco ma che per una serie di motivi principalmente salvare il culo a qualcuno non posso scrivere". Su Guantanamo, ha ammesso di aver parlato di abusi come esca per attirare nuove fonti. Sapevo, ha detto, che laggiù alcuni soldati avevano visto cose molto brutte. Così, senza averne prova, ha denunciato i misfatti per far sapere a chi voleva spifferare che lui era lì, pronto ad ascoltarli.
La verità è sempre stata un concetto abbastanza vago per Hersh. Nel 1968 da freelance vinse il premio Pulitzer per aver scoperto il massacro di My Lai in Vietnam, ma ci riuscì con quella che lui stesso oggi conferma essera stata "una parola di tre lettere: lie, una bugia". Uno stratagemma che non sminuì la "verità più ampia" della strage. La stessa cosa non si può dire per il resto di una carriera costellata di errori, fonti inaffidabili, documenti falsi e testimonianze manipolate che hanno sempre fatto inorridire la stampa liberal. Gail Collins, capo degli editoriali del Times, a proposito del libro di Hersh sui Kennedy, su The Nation scrisse che era "una tragedia giornalistica".
22 Aprile 2005