Camillo di Christian RoccaNovità: libri, film e piece teatrali affrontano la vita al tempo della clonazione

New York. Clonazione e biotecnologie, tecnica e salute, scienza e coscienza, soddisfazione dei desideri e deliri di onnipotenza, vita e morte. I soliti temi delle solite pagine del Foglio? L’ultima omelia del papa conservatore tedesco? No, affatto. Piuttosto una nuova moda, un nuovo trend, un nuovo filone artistico anzi, per essere più precisi, una nuova produzione di Hollywood, un nuovo spettacolo di Broadway e un nuovo libro di un grande scrittore contemporaneo. E’ stato il New York Times ad accorgersi di questa curiosa novità: è successo che all’improvviso il mondo del cinema, del teatro e della letteratura abbia scelto di occuparsi di questioni bioetiche, in particolare di clonazione umana, per riflettere e interrogarsi se sia davvero questa la direzione giusta verso la quale deve correre la società moderna. Storie d’amore, di amicizia e di ricerca spasmodica di normalità contrapposte alla brutalità scientista di un mondo nuovo che crea e distrugge esseri umani per curarne altri.
Il film si intitola "The Island", è diretto da Michael Bay, in America esce a luglio, ed è interpretato da Ewan McGregor e Scarlett Johansson. I due protagonisti scoprono di essere dei cloni, si innamorano e decidono di scappare dall’isola-laboratorio nella quale sono stati creati. La piece teatrale è di Caryl Churchill, si intitola "A number", è rappresentata a New York al Theater Communications Group ed è interpretata da Sam Shepard nel ruolo di un padre che, dopo aver fallito come genitore, decide di clonare più volte il figlio per riprovarci. Il libro è di Kazuo Ishiguro, l’autore di "Quel che resta del giorno" e di "Quando eravamo orfani". Il nuovo romanzo si intitola "Never let me go" e racconta la storia di tre bambini, poi diventati ragazzi, che lentamente si rendono conto di essere dei cloni, di essere stati creati per donare i propri organi alla società e quindi di non poter aspirare a una vita normale.
Ovviamente non è la prima volta che la letteratura e il cinema si occupano di esseri costruiti in laboratorio. Mary Shelley scrisse "Frankenstein" nel 1818 e, da allora, l’idea dell’uomo-creato-dall’uomo è diventato un classico, come tra gli altri dimostrano i racconti di Aldous Huxley e di Philip Dick. Ma quell’idea è diventata anche un espediente banale per romanzi di fantascienza e film di genere.
L’anno scorso, per esempio, è uscito nelle sale cinematografiche "Godsend", con Robert De Niro nella parte di un ennesimo scienziato pazzo con la sindrome di Dio. Niente di più scontato, ma non sempre è così. Sarà una combinazione, ma proprio in questi giorni è stato presentato su dvd un film culto del 1979: "Clonus" di Robert S. Fiveson. E’ la storia di un senatore, candidato alla presidenza degli Stati Uniti, che si fa clonare per poter disporre di nuovi organi vitali come se fossero dei pezzi di ricambio. Secondo i critici, in "Clonus" ci sono già tutti gli elementi di questa nuova riflessione artistica sul significato della vita. Ci sono esseri umani creati in laboratorio per fornire organi, c’è l’ambizione politica e, infine, ci sono cloni che si innamorano e cloni che tentano di sfuggire al proprio destino.

Never let me go, The Island e A number
Il libro di Ishiguro e il film di Bay indagano sui sentimenti dei cloni, raccontano la storia dalla loro prospettiva, perché soltanto la loro umanità può far capire agli umani come le magnifiche sorti e progressive della biotecnologia non siano così magnifiche né così progressive. "Never let me go" e "The Island" non predicano un’opposizione di principio alla scienza, né cadono nella trappola moralistica e religiosa. Il punto è che un conto è usare la tecnica per dare vita a una pecora, un altro per far nascere un essere umano. I cloni creati in laboratorio, per migliorare la qualità e le aspettative della nostra vita, sono essi stessi umani. Crearli per soddisfare i desideri del mondo moderno, cioè farli nascere e poi ucciderli per far star meglio un altro uomo, è mostruoso. Progettare un’esistenza, come orwellianamente scrive Ishiguro, per "donare" organi fino al "completamento" della propria funzione nella società è un tema serio, un tema che riguarda la nostra coscienza, un tema che non può essere liquidato come una preoccupazione retrograda o talebana. Nella piece teatrale "A number" il protagonista è il padre che ha fallito con suo figlio, il genitore che lo scarta e decide di sostituirlo con altri cloni. Ma la dialettica non è tra padre e figlio né sulla ricerca dell’identità. Secondo il New York Times, "A number" evidenzia con successo il bisogno di perfezione della cultura contemporanea.
"The Island", il film di Michael Bay, è ancora in fase di post produzione, ma è molto chiara la morale della favola: i due protagonisti, cioè i due cloni innamorati e pronti a fuggire dall’isola-laboratorio, sono molto più umani del cinico mondo circostante. E sebbene un mondo con tanti Ewan McGregor e con tante Scarlett Johansson non sia così spiacevole come il mondo pieno di Hitler immaginato nel 1978 da Franklyn J. Schaffner in "The boys from Brazil", la stessa emozione e la stessa sofferenza emergono dal romanzo di Ishiguro.
Spiace dover svelare quanto si scopre soltanto a metà libro, ma è necessario. La formazione di Kathy H. e dei suoi amichetti non avviene in quello che sembra un collegio di lusso della campagna inglese, ma in una struttura-laboratorio dove la parte più illuminata della società contemporanea (ma in realtà è quella che più di ogni altra fallisce il suo compito) si fa carico, perlomeno, di proteggere i cloni e di fargli vivere un’infanzia normale prima delle "donazioni" e del "completamento" della loro funzione sociale. Loro, i cloni adolescenti residenti a Hailsham, sono i privilegiati, i protetti cui non è stato spiegato fin dall’inizio il vero motivo per cui sono venuti al mondo. Sono l’élite. Invidiati da tutti gli altri cloni, cui non è stato offerto il medesimo scudo.
Quando Kathy e Ruth e Tommy scoprono la verità e capiscono che al massimo potranno durare fino alla terza "donazione", colpisce la mitezza con cui Ishiguro fa accettare loro il proprio destino. I protagonisti desiderano le cose più semplici, ma anche le cose più semplici sono impossibili da ottenere. Ruth vorrebbe trovare un lavoro in un ufficio. Kathy e Tommy credono a una leggenda secondo cui la coppia che dimostra di essere davvero innamorata può ottenere un bonus di tre anni prima di iniziare a "donare" gli organi. Tutti e tre si aggrappano a quei disegni della loro infanzia, quelli a cui i professori sembravano tenere moltissimo e loro non capivano perché: ora pensano che quei disegni siano la loro unica salvezza, che siano stati raccolti come prova dei loro sentimenti. Come strumento per testimoniare che anche loro, umani-non-umani, in fondo possiedono un’anima.
I cloni di Ishiguro sono ossessionati dalla ricerca del proprio "modello", dal trovare chi ha fornito alla scienza una parte di sé per creare un donatore. C’è chi si illude di averlo trovato in una gentile commessa di Norfolk. C’è chi è consapevole del fatto che soltanto prostitute, drogati e falliti possano aver accettato di creare un replicante. Kathy è tra questi. Solo così spiega le sue improvvise e incontenibili pulsioni sessuali. E’ questo il motivo per cui si avventa sulle riviste porno: per trovare il suo creatore.

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