Camillo di Christian Rocca100 a 0 – A Washington tutti votano il rifinanziamento della missione in Iraq e Afghanistan, Rummy prova a riformare l'esercito (critiche da destra)

New York. Cento a zero. Martedì il Senato americano ha votato all’unanimità il rifinanziamento della missione militare in Afghanistan e in Iraq. Non ci sono stati distinguo o astensioni o voti contrari. Tutti hanno detto di sì, non solo i repubblicani di Bush ma anche Hillary Clinton, John Kerry, Ted Kennedy e i più di sinistra tra i senatori di Capitol Hill. Il nuovo esborso è di 82 miliardi di dollari che, sommati a quanto già speso in precedenza, porta il costo totale dei due cambi di regimi e della successiva ricostruzione democratica a circa 200 miliardi. E c’è già chi sostiene che a ottobre sarà necessario un altro supplemento, sempre che il nuovo esercito iracheno non rispetti i programmi di addestramento e non confermi i recenti progressi.
In questa situazione, Donald Rumsfeld vuole riformare il complesso militare americano, rendendolo più agile. Tra pochi giorni presenterà pubblicamente la lista delle sue proposte, oggi al vaglio delle commissioni del Congresso. Rumsfeld dovrà anche rifare la squadra civile del Pentagono. Paul Wolfowitz se ne è andato, mentre l’altro neoconservatore Douglas Feith lascerà dopo l’estate. Il sostituto di Wolfowitz non c’è ancora, mentre al posto di Feith arriverà un altro neocon sodale del vicepresidente Dick Cheney, l’ambasciatore in Turchia Eric Edelman. Il team militare invece è stato rinnovato con due italo-americani, Peter Pace ed Edmund Giambastiani. Pace era il vice di Richard Myers, e a ottobre gli succederà nel ruolo di capo degli Stati maggiori riuniti.
Ieri Rumsfeld ha concesso un’intervista al New York Times e ha smentito le voci secondo cui a breve anche lui lascerà il Pentagono. Rimane proprio per preparare la trasformazione della Difesa americana. L’obiettivo è quello di adeguare le strategie militari alle nuove sfide della guerra al terrorismo. Oggi c’è un divario tra l’attuale apparato e la Strategia di sicurezza nazionale elaborata da Bush nel settembre del 2002, cioè il documento che lanciò la politica del regime change, del first strike e della diffusione della democrazia come strumenti contro il terrorismo islamista. L’idea di Rumsfeld è quella di far diventare l’esercito uno strumento più leggero e agile di quello attuale, più flessibile e pronto ad affrontare la guerra asimmetrica. Sembra confermato che non abbia alcuna intenzione di chiedere un aumento del numero dei marines e dei militari di carriera. In questi anni Rumsfeld ha sempre sostenuto che la vecchia dottrina della "forza schiacciante", cioè di un numero di soldati infinitamente superiore a quello degli avversari, fosse un relitto del passato. Secondo il segretario, servono invece pochi soldati ma ben addestrati, dotati di armi ad alta tecnologia e sempre pronti all’azione. La prova è la vittoria della campagna in Iraq. I suoi critici, invece, credono sia vero il contrario. La guerra per far cadere il regime di Saddam è stata molto veloce proprio grazie alle tecnologie care a Rumsfeld, ma il dopoguerra e l’emergere della guerriglia dimostrano invece che la prima riforma di cui necessita l’esercito americano è quella di aumentare i propri ranghi. Ci vogliono più truppe, più marines e meno affidamento alla riserva della Guardia nazionale.
Thomas Donnely, stratega militare dell’American Enterprise Institute, ha appena pubblicato un documentatissimo paper di 100 pagine, "The military we need", per contestare l’impostazione generale. La voce più importante della spesa in Iraq è proprio quella degli stipendi alla Guardia nazionale, i cittadini-soldati in riserva. Non si capisce, scrive Donnelly, "perché l’Amministrazione Bush continui ad agire come se questo bisogno di personale sia soltanto temporaneo". C’è una spiegazione tecnico-politica: gli stipendi temporanei non vengono calcolati nel budget federale. Ma Donnely teme sia una scelta strategica e ricorda come la spesa per la difesa sia pari a meno del 4 per cento rispetto agli 11 mila miliardi che produce l’economia americana. Con l’Iraq, arriva al 5 per cento del pil, cioè sempre meno rispetto al 6 o 7 dei tempi della Guerra fredda. Per Donnely, perché l’America sia sicura la spesa militare va aumentata del 5 o 10 per cento rispetto a oggi, portandola a 500 miliardi di dollari l’anno.

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