New York. La più temuta critica letteraria d’America, la terribile Michiko Kakutani del New York Times, qualche giorno fa ha cominciato così la recensione di un libro appena uscito negli Stati Uniti: "Il nuovo devastante romanzo di Philip Caputo, ‘Acts of Faith’, sarà per l’era della guerra in Iraq, quello che ‘L’americano tranquillo’, il romanzo di Graham Greene, ha rappresentato per l’era del Vietnam".
"L’americano tranquillo" è un libro del 1955 molto conosciuto e poi considerato quasi come la profezia della sconfitta americana in Vietnam. E’ un finto thriller ambientato in Indocina a metà degli anni 50. L’intreccio amoroso, e poi tragico, in realtà è secondario. Il romanzo piuttosto racconta la mollezza della Francia post coloniale, la fascinazione degli intellettuali europei per la lotta di liberazione comunista (argomenti che i critici letterari faticano a riconoscere) ma, soprattutto, l’idealismo ingenuo e guerriero degli americani.
Il narratore è un disincantato giornalista inglese, l’americano tranquillo è Alden Pyle, un ragazzotto bostoniano di buona famiglia, laureato ad Harvard e spedito in Indocina ufficialmente come medico in missione umanitaria. Scrive Greene di Pyle: "Era deciso a fare del bene, non a una persona in particolare ma a un paese, a un continente, a un mondo intero". L’americano tranquillo era un entusiasta democratizzatore, voleva espandere la libertà, parlava del pericoloso effetto domino comunista e forniva soluzioni studiate sui libri universitari, ma quasi sempre scollegate con la realtà. "Che Dio ci salvi dall’innocente e dal buono", dice a un certo punto il giornalista inglese di Pyle.
La storia è diventata la parabola degli interventi americani fuori dai propri confini, ma anche la metafora dei danni che lo spirito missionario può provocare se applicato a paesi, popoli e culture diverse da quelle occidentali. Insomma, il trionfo del relativismo e la spiegazione del fallimento delle successive politiche kennedyane nel sud-est asiatico. "L’americano tranquillo" è tornato di moda dopo l’elaborazione post undici settembre della dottrina di Bush finalizzata al cambio di regime in Afghanistan e in Iraq. Nel 2002 è uscito un film di Philip Noyce, interpretato da Michael Caine e da Brendan Fraser, in realtà un remake del precedente diretto nel 1957 da Joseph Mankiewicz. Sono seguite polemiche furibonde tra chi accusava il film di antiamericanismo e chi lo ha usato per mettere in guardia sulla follia dell’intervento militare americano per esportare la democrazia in medio oriente.
"Acts of Faith", atti di fede, segue questo filone. Nel libro dell’ex giornalista Philip Caputo c’è una storia, ben raccontata, di amore, di morte e di travaglio interiore ma anche qui è il contesto ciò che conta. I fatti sono ambientati in Sudan, negli anni 90. Il romanzo racconta gli sforzi umanitari delle organizzazioni non governative in un’area infestata dalla guerra civile combattuta tra il governo musulmano di Khartoum e il sud cristiano-animista. Caputo racconta le atrocità, le stragi e gli stupri con la precisione di chi in quei posti c’è stato e di chi la guerra l’ha vista da vicino.
Per certi versi è un libro politicamente scorretto, con l’accusa all’Onu di essersi tirata indietro e di non voler entrare in Sudan perché troppo pericoloso. A causa di ciò gli aiuti umanitari sono affidati alla buona volontà e agli atti di fede di pochi occidentali. I tre principali personaggi sono a loro modo gli Alden Pyle di questo libro. Quinette Hardin è una ventenne cristiano-evangelica dello Iowa, animata dalla volontà di fare del bene, di liberare i cristiani resi schiavi dai predoni arabi e di convertire al cristianesimo la popolazione locale. Finisce col diventare una sostenitrice della rivolta armata contro Khartoum. Douglas Braithwaite e Wesley Dare sono altri due operatori umanitari, ex funzionari Onu e piloti di speciali aerei capaci di atterrare in condizioni difficili e su terreni impervi (in inglese si chiamano "bush pilots"). Secondo il New York Times, Douglas è un personaggio che ricorda il grande Gatsby ma anche George Bush e Oliver North. Come l’ex colonnello americano dello scandalo Iran-Contras, Douglas organizza un traffico di armi perché si rende conto che "gli aiuti umanitari non sono più la soluzione ai problemi umanitari. Soltanto l’artiglieria anti aerea e i lanciamissile potranno trasformare i Nuba da vittime a persone in pieno controllo del proprio destino".
Caputo vuole dimostrare come in Sudan, o in situazioni del genere, "la scelta non è mai tra la cosa giusta e la cosa sbagliata, ma tra cosa sia necessario e cosa no". I volontari americani che sono andati laggiù a fare del bene, per fede e per convizione, pensano invece che ci siano valori assoluti accettabili da chiunque. Credono davvero di fare la cosa giusta, eppure sono soltanto "americani narcisi", motivati dal cieco "impulso a voler rifare il mondo" e incapaci di capire che "il mondo desidera rimanere com’è".
Ci sono tutti gli elementi per un parallelo con la politica di Bush in medio oriente o, meglio, con la rappresentazione della sua politica che ne fa la stampa liberal: c’è l’idealismo dietro il quale si nasconde l’avidità capitalista; c’è l’ignoranza spacciata per compassione; c’è l’atto di fede che si trasforma in arroganza. Ecco perché, secondo il New York Times, il libro di Caputo è la realistica parabola della follia americana in medio oriente. Eppure, grazie a quella follia, due giorni fa a Baghdad è nato il primo governo democratico dell’Iraq.
6 Maggio 2005