Ci sono altri neoMax D’Alema nel mondo? Ci sono altre personalità costrette, ex post, a dover dare ragione alle tesi liberatrici del medio oriente elaborate da Paul Wolfowitz? Ci sono altri politici o giornalisti o editorialisti che si sono infine convinti che l’idea di cambiare i regimi dittatoriali in medio oriente e di sostituirli con la democrazia sia una cosa giusta, di sinistra e probabilmente la più efficace per garantire la sicurezza dell’occidente? Sì, ce ne sono molti altri e il Foglio ne ha dato conto quando si sono appalesati, tra fine febbraio e inizio marzo, quando le piazze arabe sono esplose non contro Bush, come i suddetti avevano previsto, ma a favore della democrazia e della libertà.
Così è cominciata la lenta svolta, i cui effetti si sono visti anche al congresso dei Ds e nelle recenti dichiarazioni di Massimo D’Alema. Si sono succeduti imbarazzati editoriali del New York Times e del Washington Post, sono arrivate le ammissioni di leader arabi come Jumblatt, gli osanna da parte di giornali tedeschi come lo Spiegel, i mea culpa del Guardian, lo stupore di Libération, la crisi d’identità di organi iper pacifisti come l’Independent, i riconoscimenti a Bush da parte di Ted Kennedy, John Kerry e dei capi democratici, le conversioni a U di settimanali e di leader pacifisti canadesi e così via. Senza retromarce all’italiana e senza comici tentativi di spiegare come la svolta sia coerente con quanto detto fino al giorno prima, costoro hanno riconosciuto che la politica americana post 11 settembre sta funzionando e che Bush, mannaggia a lui, ha avuto ragione. I risultati sono lì: il voto e il governo democratico prima in Afghanistan e poi in Iraq, le richieste di libertà in Egitto, la nascente democrazia palestinese, la rivoluzione in Libano, il ritiro della Siria e il vento democratico che pare inarrestabile nelle ex Repubbliche sovietiche.
Gli ultimi ripensamenti neo-neocon si trovano sul New Yorker e sul Guardian di questa settimana. Il raffinato magazine della sinistra americana ospita nel numero in edicola un lungo ritratto di Douglas Feith, sottosegretario del Pentagono nonché compare di Paul Wolfowitz. Feith in questi anni è stato descritto come il più perfido tra i neoconservatori, come l’uomo che per conto della lobby si è sporcato le mani per manipolare prove sulle armi di Saddam, per ingannare la Casa Bianca e il popolo americano e, infine, per fare gli interessi della destra israeliana. Feith a giugno lascerà il posto a un altro neoconservatore: Eric Edelman, attuale ambasciatore americano in Turchia. Invece che fargli il necrologio, il New Yorker lo ha raccontato sotto una luce diversa e lo ha descritto per quello che Feith in realtà è: un intellettuale gentile e garbato, un liberale innamorato dei suoi cinquemila libri nonché un amabile conversatore di temi storici e filosofici.
Sul Guardian di Londra, invece, è comparso un editoriale di Max Hastings, l’ex direttore del Daily Telegraph e grande inviato di guerra inglese. "Abbiamo molto su cui riflettere", ha scritto Hastings a proposito delle torbide previsioni che lui e gli altri anti Bush britannici hanno fatto a proposito dell’Iraq e delle prospettive di pace in medio oriente. Gli attentati continuano, la situazione della sicurezza è ancora grave, ma forse ha ragione la Casa Bianca a dare più peso ai progressi in corso e a vedere il bicchiere mezzo pieno anziché mezzo vuoto: "Il pericolo più grande per noi che non amiamo George Bush è che i nostri istinti possano trasformarsi in desiderio di veder fallire gli obiettivi della sua politica estera. Nessuna persona ragionevole può opporsi all’impegno del presidente a favore di una democrazia islamica. La maggior parte dei bushofobi occidentali non è motivata dal dissenso rispetto a quegli obiettivi, ma dalla convinzione che i metodi dei neocon di Washington siano grossolani e probabilmente destinati ad aggravare lo scontro tra l’occidente e l’Islam piuttosto che ad allentare la tensione. Questo scetticismo, comunque, non deve impedirci di valutare i progressi del progetto di Bush". E più avanti: "Il pregiudizio non ci deve bendare gli occhi sulla possibilità che i liberal occidentali abbiano torto e che la grande strategia dei repubblicani stia ottenendo qualcosa". E’ sbagliato tirare già adesso le somme sul futuro dell’Iraq, ha scritto Hastings, ma "noi liberal dobbiamo recitare un mantra: Vogliamo che in Iraq le cose vadano bene, anche se questo darà ragione a George Bush".
7 Maggio 2005