Camillo di Christian RoccaA pranzo con i corrispondenti europei

New York. Ci sono due modi per capire il pregiudizio antiamericano, sì antiamericano, di gran parte dei giornalisti europei. Il primo è quello di leggere i loro articoli, analizzare i fatti riportati e, infine, indignarsi per la quantità di manipolazioni contenute. Ma costa fatica e c’è da studiare. Poi ce n’è uno molto più semplice: conoscerli e provare a intuire come sia possibile che le stesse persone così preoccupate per il peso della religione a Washington o a Roma poi liquidino come una normale diversità culturale l’ideologia di chi taglia le teste all’infedele.
Il Dipartimento di Stato, attraverso il centro per la stampa estera di New York, mercoledì li ha invitati a pranzo al Council on Foreign Relations, il centro studi dell’establishment finanziario e liberalconservatore americano, i cui membri vanno da Henry Kissinger a George Soros e che non è mai stato tenero con George W. Bush. L’intenzione era quella di far conoscere ai giornalisti tre dei più importanti analisti del Council: lo storico Walter Russel Mead, il neocon Max Boot e la direttrice del dipartimento sul medio oriente Rachel Bronson. I tre si sono presentati con brevi interventi generali in cui hanno raccontato, da diverse angolature, lo stato della politica estera americana, cioè che cosa sta succedendo in Iraq, le ripercussioni in medio oriente, il difficile rapporto con i sauditi e gli altri regimi della regione e, infine, la relazione con l’Europa e le nuove sfide asiatiche. A grandi linee i tre erano d’accordo nel dire che il futuro dell’Iraq e del medio oriente è ancora tutto da scrivere, che è ancora troppo presto per cantare vittoria o fasciarsi la testa e che l’intervento americano potrà concludersi con uno straordinario successo oppure essere ricordato come un disastro epico. I tre analisti hanno sottolineato tutti gli errori commessi in Iraq (alcuni dei quali disastrosi, ha aggiunto la Bronson) ma hanno anche spiegato che i progressi compiuti, cioè le tre elezioni e il nuovo vento democratico nella regione e altrove, sono da considerarsi risultati straordinari, quasi inimmaginabili se col pensiero si ritorna all’11 settembre. La direzione è giusta, hanno detto i tre, anche se Rachel Bronson ha criticato Bush per aver sottovalutato la gamba economica e diplomatica della sua grande strategia. La Bronson, inoltre, è convinta che gli Usa debbano continuare a sostenere gli alleati nella regione, cioè i sauditi e gli egiziani, perché le alternative sarebbero peggiori del male attuale. Boot ha detto che qualsiasi cosa farà, la Casa Bianca verrà comunque criticata, perché se consoliderà l’alleanza con quei regimi, sarà accusata di essere filodemocratica solo quando le conviene; se invece proverà a farli cadere, di essere guidata da una cricca di fanatici. Mead ha messo le cose in una prospettiva storica, ha ricordato che la perfezione non è di questo mondo e che tutti gli interventi provocano conseguenze negative. La Guerra fredda, per esempio, è il disastro creato dalla vittoria nella Seconda guerra mondiale, eppure nessuno mette in discussione l’importanza, la legittimità e il ruolo dell’intervento anglo-americano nella liberazione dell’Europa.
Nessuno, tranne i corrispondenti europei. Ha cominciato una giornalista spagnola: è ridicolo, ha detto, voi spiegate che tutto va bene, quando è evidente che è un disastro e che il numero dei terroristi è aumentato. Poi ha preso la parola un free-lance israeliano, il quale ha sfottuto Russell Mead leggendogli una frase che compare nella copertina del suo libro: lei che è “uno dei principali filosofi di politica estera americana” come giudica il fatto di essere governato da un fondamentalista religioso?. Risate in sala. A nulla sono valse le spiegazioni di Mead sul fatto che Bush è metodista, quindi moderato, né sulla maggiore influenza che la religione ha avuto su altri presidenti, per esempio sul liberal Woodrow Wilson. Non è valso a nulla nemmeno l’umiliante invito ad andare a vedere con i propri occhi la gente che nei salotti di Manhattan viene definita “fondamentalista”: “Andate in Alabama, assistete a una messa, parlate con questa gente”. Non sono mostri, era il senso del consiglio giornalistico di Mead, sono persone normali. Niente da fare. Una tedesca ha messo in discussione che sia stata l’America a liberare l’Europa dell’Est (“si è liberata da sola”) e, a guardar bene, in Spagna ha aiutato Franco… Mead ha provato a rispondere con un esempio: “Nel baseball…”. Sollevazione generale: il baseball non lo capiamo. Fate altri esempi. Siate più umili. Boot, allora, s’è incavolato e per due volte, superando il brusio della sala, ha ripetuto una cosa terribile per le orecchie dei corrispondenti: “I’ll tell you this: nell’ultimo secolo, nonostante tutti gli errori, l’America è stata la più grande forza del bene del pianeta”. Una svizzera l’ha interrotto: “Ma allora se siete così buoni come mai nel mondo c’è tanto antiamericanismo in giro?”. Chissà, magari leggono i giornali.

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