New York. Immaginatevi se il Corriere e la Repubblica avessero un garante dei lettori indipendente pronto a fare liberamente le pulci al proprio giornale e a denunciare il pregiudizio politico contenuto negli articoli, nei titoli e nella scelta delle notizie. Immaginatevi, poi, se il medesimo garante, dopo un anno e mezzo di lavoro, decidesse di andarsene e di andarsene togliendosi i sassolini dalle scarpe, cioè criticando, per esempio, la faziosità degli editoriali di Eugenio Scalfari o di Sergio Romano, i numeri contenuti nelle analisi di questo e quell’opinionista economico, il taglio dei servizi di Ennio Caretto o di Vittorio Zucconi. Immaginatevi, infine, che uno di loro, incavolato nero per le critiche, abbia preso carta e penna e provato a rispondergli sullo stesso giornale, innescando un imbarazzante dibattito sulla qualità dei servizi giornalistici del proprio giornale. Immaginatelo e basta, perché in Italia non accadrà mai: con l’eccezione di un piccolo quotidiano che ogni martedì pubblica una colonna di “cortesie per gli ospiti” affidata a un dirigente dei Ds, la stampa nostrana non ammette critiche e spesso rifiuta di correggersi.
E’ successo, invece, al New York Times, il quotidiano odiato da mezza America per il suo pregiudizio liberal ma allo stesso tempo amato perché al mondo non esiste un giornale migliore. Ed è successo qui, nonostante gli standard di correttezza siano decisamente più alti rispetto a quelli italiani.
Nel suo ultimo giorno di lavoro, prima di lasciare il posto al sostituto Barney Calame, il garante Daniel Okrent ha pubblicato un articolo dal titolo: “Le 13 cose che volevo scrivere e che non ho mai scritto”. Il punto numero 2 è quello che ha scatenato il putiferio. Secondo Okrent, gli editorialisti Paul Krugman e Maureen Dowd, vale a dire le più acclamate star liberal del Times nonché i più tosti fustigatori di George W. Bush, sono un po’ troppo faziosi. L’economista Krugman, ha scritto il garante, “ha l’inquietante abitudine di rimodellare, di tagliare a fette e di citare in modo selettivo i numeri”. Maureen Dowd, invece, “ha scritto che Alberto Gonzales definisce pittoresca la Convenzione di Ginevra, quasi due mesi dopo che una rettifica nelle pagine del giornale ha fatto notare che Gonzales si riferiva soltanto ad alcune specifiche clausole di Ginevra, quali la fornitura ai detenuti di tute da ginnastica e di strumenti scientifici”. Okrent ha bacchettato anche l’ex editorialista di destra, William Safire, ora in pensione. In particolare perché in un articolo ha scritto che c’erano chiari legami tra al Qaida e Saddam, “basati su prove che sembra avere soltanto lui”. In effetti, sul New York Times, tali prove non hanno avuto granché spazio, ma si possono facilmente trovare in dodici righe del rapporto della Commissione d’indagine sull’11 settembre oltre che nei documenti ufficiali con cui nel 1998 Clinton mise sotto inchiesta Osama bin Laden.
Ma la critica a Safire è secondaria, così come quella sulla “cattiveria gratuita” della critica televisiva Alessandra Stanley. I due casi che hanno creato rumore sono quelli di Krugman e Dowd: “Nessuno si merita le ingiurie personali che riceve Dowd, mentre alcuni dei nemici di Krugman sono ideologici (e di conseguenza scorretti) quanto lui. Ma questo – ha scritto il garante – non vuol dire che il loro capo, l’editore Arthur O. Sulzberger Jr., non debba obbligare i suoi editorialisti a mantenere standard di qualità più alti”. Maureen Dowd s’è infuriata e l’ha fatto sapere a Okrent, mentre Krugman ha cominciato a scrivergli due o tre volte al giorno chiedendogli di ritrattare o di scusarsi. “Non farà nessuna delle due cose”, ha detto Okrent al party di addio. Krugman se l’è legata al dito e ha scritto una lettera che il giornale ha pubblicato nella pagina della corrispondenza coi lettori: “Okrent non ha fornito nessun esempio”. Il dibattito è continuato sul sito Internet del giornale. Krugman è intervenuto raccontando una telefonata di fuoco tra i due e ammettendo, “a malincuore”, soltanto una delle tre scorrettezze imputategli da Okrent e poi criticando Okrent. L’ex garante ha risposto spiegando di aver capito subito che “per il professor Krugman è più facile contribuire alla campagna presidenziale di Bill Frist (il leader dei repubblicani al Senato) piuttosto che riconoscere la possibilità di aver commesso un errore”. Le scorrettezze, però, non sono soltanto tre, e ha certosinamente citato i dati non veritieri forniti da Krugman per criticare la politica economica e fiscale di Bush. L’ultima parola se l’è presa Krugman: “Accuse infondate”. Okrent invece ha chiuso così: “Odio dover fare una cosa del genere a un uomo gentile come il mio successore, ma ora tocca a lui l’onere di sopportare le botte di Krugman”.
4 Giugno 2005