Milano. Lo scandalo che non farà crollare la Casa Bianca, quello noto a Washington come Ciagate o Rovegate o Plamegate è un grande romanzo d’appendice, popolato di spie un po’ segrete e un po’ casalinghe, di ex ambasciatori farfalloni in gita premio in Niger, di giudici intransigenti, di intrecci familiari e di intrighi tra politici e giornalisti sullo sfondo della guerra al terrorismo. Si è parlato di complotti e di macchinazioni, di scontri e di vendette tra servizi segreti e poteri dello Stato o solo di semplici pettegolezzi. E’ il nuovo Watergate, urlano i giornali liberal. Macché, è un not-a-scandal-gate, un “nadagate”, vale a dire una comica, replicano gli opinionisti conservatori che fanno notare come l’agente segretissimo Valerie Plame, dopo essere stata “scoperta” dai cattivi della Casa Bianca, sprezzante del pericolo si sia fatta fotografare da Vanity Fair in posa da diva del cinematografo.
E’ una via di mezzo tra le due cose. C’è un’inchiesta in corso, anche se non si sa su quali ipotesi di reato stia indagando (probabilmente su falsa testimonianza). E c’è una giornalista del New York Times, Judith Miller, reclusa in carcere per ostruzione alla giustizia. La storia ha una genesi italiana. (***) Tutto nasce da un documento scovato da una giornalista di Panorama, Elisabetta Burba, che avrebbe dovuto provare l’acquisto da parte di Saddam di uranio dal Niger. Carlo Rossella, allora direttore del settimanale, giudicò falso quel documento, non lo pubblicò e lo consegnò all’ambasciata americana. Successivamente, il vicepresidente Dick Cheney chiese alla Cia di verificare la veridicità di quel testo e la Cia, fin dall’inizio scettica sul dossier nucleare iracheno e contraria all’intervento per destituire Saddam, inviò l’ex ambasciatore Joe Wilson in Niger. Wilson è un tipo elegante, occhiali da intellettuale e capelli brizzolati al vento come Richard Gere. Democratico, sostenitore di Al Gore, finanziatore della campagna elettorale di John Kerry, Wilson è un loquace critico della campagna irachena di Bush. Nella capitale africana rimase soltanto 8 giorni, limitandosi a una serie di incontri fissati da sua moglie con i corrotti governanti locali. Durante il breve soggiorno (parole sue) Wilson bevve parecchie tazze di “tè alla menta”. Un’inchiesta più sullo stile dell’ispettore Clousseau che da guerra al terrorismo, tanto più che la Cia non gli fece firmare nessun impegno a tenere segreto il contenuto dei suoi incontri. Wilson tornò a Washington, fece rapporto e la cosa sembrò finire lì.
Alcuni mesi dopo, il 6 luglio 2003, Wilson scrisse un editoriale sul New York Times con cui accusava la Casa Bianca di aver ingannato gli americani e di aver falsificato le prove sulle armi di Saddam. Raccontò del suo viaggio in Niger, compreso del tè alla menta, scrisse di non aver trovato alcuna prova dell’acquisto di uranio e di essere certo che il suo rapporto era arrivato a Bush. Ecco lo scandalo: nel gennaio del 2003, nonostante quel rapporto, Bush inserì 16 parole nel suo discorso sullo Stato dell’Unione con le quali accusava Saddam di aver cercato di acquistare uranio in alcuni paesi africani (“cercato” non “acquistato”). Sei mesi dopo, Wilson denunciò la grande bugia.
Mi manda mia moglie
Bob Novak, un editorialista conservatore per nulla favorevole alle campagne mediorientali di Bush, una settimana dopo l’articolo-denuncia di Wilson scrisse un editoriale non sfavorevole all’ambasciatore (“un eroe”), in cui però fece notare che la sua missione era stata decisa dalla moglie, l’agente della Cia Valerie Plame. Novak si era chiesto per quale motivo i bushiani avessero mandato a condurre una missione così delicata un liberal anti Bush e per nulla qualificato al compito. La spiegazione era questa: non l’avevano scelto loro, era stato selezionato dalla moglie, cioè da un’analista Cia sulle armi di sterminio che non credeva al pericolo saddamita. Wilson ha negato per un anno, e anche nel suo libro, poi è stato inchiodato da un memo Cia scritto da sua moglie.
Due giorni dopo l’articolo di Novak, sul sito della rivista più di sinistra d’America, The Nation, David Corn intervistò Wilson e svelò che era stato commesso un reato federale perché la Plame era un agente segreto coperto la cui identità è protetta da una legge del 1982. Per il fronte anti Bush era la prova che l’America è governata da una cricca arrogante e ingannatrice, pronta a screditare un onesto funzionario e disposta a mettere in pericolo un agente segreto.
Ora s’è scoperto che la teoria del complotto non sta in piedi e che se c’è una macchinazione è più probabile che sia dei liberal contro Bush.
L’inchiesta federale è partita un anno e mezzo fa, con la nomina di un procuratore decisa dal ministro della Giustizia di Bush, John Ashcroft. La notizia è che Valerie Plame non era un’agente coperto. Lo ha ammesso suo marito domenica scorsa alla Cnn: “Quando è stato fatto il suo nome, mia moglie non era un’agente coperto”. Plame ha un lavoro di ufficio a Langley, sede della Cia. La maggioranza dei vicini di casa dei Wilson sapeva del lavoro di Valerie. Di più: nel 1990 fu la Cia a declassificare il suo nome in uno scambio di documenti con la Russia e poi, per errore, ai servizi cubani. Prima di scrivere l’articolo, Novak consultò la Cia, ma non ricevette alcun avvertimento.
A settembre 2003, Bush disse che avrebbe licenziato chiunque dei suoi “avesse violato la legge”, la stessa cosa che ha ripetuto l’altro ieri. I giornali credono però che ci sia un cambio di atteggiamento, perché Bush nel giugno 2004 aveva detto che avrebbe licenziato chiunque fosse anche solo “coinvolto” nel caso. Eppure nel 2004 Bush si era limitato a rispondere di “sì” a una confusa domanda di un cronista che gli chiedeva se confermasse la “promessa dell’anno precedente”.
Novak ha scritto di aver appreso il nome della Plame da un funzionario di governo “non di parte”. E questo particolare, da solo, esclude la tesi del complotto dei bushiani. E’ stato Novak a rivelare i particolari a Rove. C’è chi sostiene che la fonte di Novak possa essere l’ex vice di Colin Powell, Richard Armitage (colpito dall’articolo-denuncia di Wilson, perché Powell aveva citato la storia del Niger nella presentazione all’Onu***). Il giorno dopo l’uscita dell’articolo di Wilson, e il giorno prima della telefonata con cui Novak ottenne la conferma da Rove, Armitage inviò a Powell un memo del Dipartimento di Stato che spiegava come mai la Cia avesse mandato Wilson in Niger. Quel giorno Powell era con Bush e i giornalisti sull’Air Force One in rotta verso l’Africa. Ma c’è anche chi sostiene che la fonte sia esterna al governo, sia giornalistica. L’ipotesi è che sia stata Judith Miller, a raccontare la vicenda familiare dei Wilson. Questo spiegherebbe perché la Miller sia l’unica in galera, nonostante non abbia mai scritto il nome di Plame. L’altra ipotesi è che Miller copra qualcun altro, certo non Rove né Lewis Libby, visto che entrambi hanno dato a Matt Cooper di Time il via libera per raccontare al giudice di aver saputo da loro la notizia. In ogni caso, e per quanto se ne sa oggi, il coinvolgimento di Rove e Libby è solo passivo. Entrambi hanno ricevuto telefonate da due cronisti e hanno risposto a domande. Non c’è traccia di sporchi trucchi per screditare Wilson, né di alcun complotto (lo prova anche una e-mail di Rove al vice di Condi Rice, Stephen Hadley).
A questo si aggiunga che la Commissione bipartisan sui Servizi americani ha scoperto che il rapporto di Wilson post Niger non ha cancellato il sospetto del tentato acquisto di uranio, tutt’altro. E poi, al contrario di quanto scritto da Wilson, la Cia non passò mai alla Casa Bianca il contenuto di quel rapporto. Del resto le informazioni usate da Bush non provenivano dal falso dossier italiano, ma dai servizi britannici. Informazioni che la Commissione Butler di Londra ha giudicato “ben fondate”.
Christian Rocca
(***
correzione 1: il documento scovato da Panorama non c’entra col viaggio di Wilson. E’ stato trovato a ottobre 2002, mentre il viaggio in Niger è di febbraio dello stesso anno. L’errore è dovuto a un’erronea affermazione dello stesso Wilson. Quindi Cheney non chiese di verificare la veridicità di quel testo.
correzione 2: Colin Powell non ne parlò all’Onu, ma una settimana prima – il 26 gennaio – durante un discorso in Svizzera)