Il movimento conservatore americano è sull’orlo di una crisi di nervi, a solo un anno dalla trionfale elezione di George W. Bush. L’analisi non è univoca, tanto più che la parte avversaria, quella liberal, non dà particolari segni di vitalità e, al momento, non pare in grado di ribaltare il rapporto di forza alle prossime elezioni di metà mandato del 2006. Il malcontento però è generale, diffuso tra tutte le anime della coalizione conservatrice che ha vinto sette delle ultime dieci elezioni presidenziali. C’è chi spiega questo autunno di discontento con l’implacabile maledizione del secondo mandato, quella che colpì sia Ronald Reagan (con lo scandalo Iran-Contra) sia Bill Clinton (con il sexgate di Monica Lewinsky). C’è chi, invece, lo imputa al caso e quindi nega che ci sia una vera crisi. Infine, c’è chi crede che il responsabile unico sia soltanto Bush e il suo modo familistico di gestire la cosa pubblica. La scelta di nominare alla Corte suprema Harriet Miers, una sua consigliera giuridica pressoché sconosciuta, ha fatto deflagare una situazione già compromessa da altre scelte di clan, come alla Fema (la protezione civile), alla prova dei fatti dimostratesi inadeguate. Bush, come in passato Jimmy Carter, ama piazzare nei posti chiave i suoi stretti collaboratori, i quali provengono quasi tutti dal Texas.
Ma il punto è un altro: comincia ad apparire chiaro a tutti che il conservatorismo compassionevole, cioè solidaristico, di Bush è una dottrina politica nuova e originale, perché insegue i classici obiettivi della destra (tagli delle tasse, valori morali e potere americano) attraverso gli strumenti tradizionali della sinistra liberal, cioè aumentando il peso e l’influenza dello Stato federale invece che limitandone l’estensione, riducendone l’impatto e tagliando i centri di spesa.
Anche la questione più controversa di questi anni, la guerra per liberare l’Iraq da Saddam Hussein, risponde a un’impostazione di politica estera più liberal che conservatrice. I continui accenni all’idealismo democratico del presidente Woodrow Wilson (1913-1921), oltre che al repubblicano Ronald Reagan (1981-1989), fanno il paio con la decisione di invadere l’Iraq attuando la dottrina Clinton formulata nel 1998 con l’Iraq Liberation Act, la legge che fece diventare il “regime change” a Baghdad “la politica ufficiale degli Stati Uniti” quasi tre anni prima che Bush entrasse alla Casa Bianca. E non è un caso che l’establishment del partito repubblicano, di cui fanno parte Bush padre, Henry Kissinger, Colin Powell e alcuni tra i più autorevoli senatori di Washington, e l’altra fondamentale componente della Right Nation, quella paleocon, cioè conservatrice tradizionale, si siano opposte all’uso della potenza americana per cambiare il mondo arabo e islamico. Così come non è per accidente che i più entusiasti sostenitori siano quei neoconservatori che affondano le loro radici intellettuali nel liberalismo dell’East Coast. Il dibattito, acceso e a tratti inconciliabile, è condensato in un nuovo saggio di Gary Rosen dal titolo “The right war? The conservative debate on Iraq” che raccoglie gli interventi dei capifila delle varie correnti da Kristol a Kissinger, da Podhoretz a Buchanan, da Kagan a Zakaria.
Sul fronte interno della lotta al terrorismo, Bush ha fatto arricciare il naso ai federalisti prendendo a prestito dal suo ex avversario Al Gore l’idea di istituire il ministero della Homeland Security, subito diventato uno dei più importanti centri di spesa e di occupazione del paese. Il Patriot Act, votato anche dai democratici, non piace alla componente libertarian del movimento, e ai suoi centri studi come il Cato Institute. Libertari e liberal di sinistra, insieme, si sono riuniti in un comitato unitario per chiederne la parziale abrogazione.
L’elenco delle lamentele
I primi a lamentarsi di Bush, già durante i primi quattro anni alla Casa Bianca, sono stati i “fiscal conservative”, tradizionalmente molto attenti al bilancio dello Stato. Per decenni, evitare di creare un deficit pubblico è stata la filosofia di governo del Partito repubblicano, la chiave per poter tagliare le tasse. Tanto che il grande surplus creato da Bill Clinton è anche merito del Congresso guidato da Newt Gingrich, che al presidente democratico ha stretto i cordoni della borsa. Se i liberal si battono per aumentare le imposte in modo da spendere più soldi pubblici per migliorare la vita e proteggere maggiormente i cittadini, Bush ha scelto di governare tagliando le tasse, ma spendendo di più. Più di qualunque altro presidente. La riduzione delle imposte ha messo d’accordo tutte le componenti conservatrici e, tra l’altro, ha provocato un aumento del 15 per cento delle entrate erariali, mentre l’aumento del 33 per cento della spesa pubblica (29 per cento senza le spese militari) ha scontentato quasi tutti. Non solo per il buco di bilancio e neanche per semplici motivi ideologici, soprattutto perché i conservatori reputano che il ricorso alla centralizzazione, ai programmi federali e all’intervento dello Stato non funzioni, produca inefficienze. Prova ne è l’inadeguata risposta di Washington alle defaillance locali in occasione dell’uragano Katrina. Ma finché l’economia cresce (più 4 per cento) e il tasso di disoccupazione si riduce (5 per cento), i mugugni della base intellettuale conservatrice non fanno rumore, anche perché una fetta di spesa pubblica raggiunge le associazioni no profit religiose che svolgono attività sostitutive dello Stato sociale. Tutto bene su questo fronte, dunque. Anche se resta insopportabile l’aumento del costo del petrolio che ogni giorno pesa sempre di più nelle tasche degli americani. E senza dimenticare che, a gennaio, Bush dovrà fare i conti con le dimissioni del presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan.
Katrina ha divaricato ancora di più la frattura tra Bush e i falchi del bilancio, questi ultimi costretti a subire anche l’affronto di una legge che finanzia seimila nuove opere pubbliche. L’Amministrazione ha annunciato un progetto da 200 miliardi per provare non solo a ricostruire ma anche a curare l’endemica povertà di quelle zone.
L’immagine “efficiente” di Bush ne è uscita seriamente deteriorata, anche se il bilancio reale del disastro è stato meno drammatico e nonostante le responsabilità fossero principalmente dei politici (democratici) locali. Bush si è rifatto con la gestione dirigista dell’uragano Rita, ma il mese di settembre e questa prima parte di ottobre hanno portato parecchie cattive notizie al presidente. L’Iraq, intanto. La Casa Bianca sembra non avere un piano chiaro: cerca di coinvolgere i sunniti nel processo di approvazione referendaria della Costituzione, per il dopo buio assoluto. L’impasse e la continua perdita di soldati americani convincono sempre di più l’ala nazionalista, realista e isolazionista dei repubblicani a trovare una via d’uscita la più veloce possibile, ipotesi che Bush non prende in considerazione. A questo elenco di difficoltà si aggiungano la continua polemica dei neocon contro la gestione di Donald Rumsfeld della guerra e le polemiche su Abu Ghraib e Guantanamo che hanno convinto un conservatore come Andrew Sullivan a sostenere John Kerry.
Un’occasione attesa da 25 anni e poi sprecata
Poi ci sono gli scandali che, improvvisamente, sono arrivati a sfiorare la Casa Bianca e, soprattutto, la leadership del partito, non di un partito qualsiasi ma di quello che nel 1995 conquistò la Camera e ruppe il quarantennale dominio dei Democratici proprio accusando gli avversari di essersi trasformati in un comitato d’affari. Oggi, dopo dieci anni, il potere sembra cominciare a logorare i repubblicani: i due leader al Senato e alla Camera sono sfiorati dal sospetto di aggiotaggio e formalmente indagati dalla magistratura. Uno dei principali lobbysti del partito, Jack Abramoff, è implicato in una serie di vicende illegali che riguardano finanziamenti illeciti, compravendite sospette, business nei casinò, truffe e addirittura un omicidio. A Washington è stato arrestato, in un’altra inchiesta, un alto funzionario dell’Ufficio del budget della Casa Bianca, David Safavian, un ex socio di Abramoff accusato di aver aiutato il suo vecchio sodale approfittando della sua posizione dentro il governo. Una combinazione di eventi che ha fatto scrivere al settimanale liberal Newsweek che sembra il partito Baath di Saddam, non il Grand Old Party di Abramo Lincoln. Infine c’è il complicato caso di Valerie Plame che coinvolge i principali consiglieri di Bush e del suo vicepresidente Dick Cheney. E’ probabile che la Casa Bianca e l’intero movimento conservatore escano indenni, o con pochi danni, da queste vicende e che, in conclusione, i continui attacchi della stampa liberal finiscano per favorire Bush.
Senonché si è aperta la falla della Corte suprema, la più ampia, la più pericolosa per Bush. I conservatori aspettavano da 25 anni questo momento, ossia l’occasione di poter finalmente spostare con due nomine l’asse della Corte suprema nella direzione del federalismo e dell’interpretazione letterale della Costituzione. Un’occasione in passato sprecata sia da Reagan sia da Bush padre, visto che i loro prescelti si sono trasformati in icone dei liberal. Questa volta, dal rivoluzionario Bush, la Right Nation si aspettava due grandi giuristi smaccatamente conservatori, gente che in questi anni si è battuta per evitare che le corti si trasformassero in luoghi dove pochi giudici militanti ribaltano le decisioni delle assemblee legislative. Ma si sono ritrovati un moderato come John Roberts e una sconosciuta come Harriet Miers. La delusione è unanime e certo pochi mesi fa nessuno si poteva aspettare che il New York Times concedesse il lasciapassare e che i leader democratici prima concordassero e poi approvassero le scelte di Bush. Ieri il presidente ha convocato una conferenza stampa per tranquillizzare i suoi: saranno ottimi giudici, fidatevi. E’ il suo metodo, in fondo: spendere la sua leadership per fare la rivoluzione conservatrice con strumenti liberal. Intanto, ieri, la Gallup ha reso noto che il tasso di approvazione di Bush è improvvisamente salito dal 40 al 45 per cento.