Camillo di Christian RoccaNel mondo ci sono meno guerre. Grazie a Reagan (e a George W?)

Milano. Una clamorosa conferma della dottrina Bush, e con essa anche della politica estera perseguita negli anni Ottanta da Ronald Reagan, è arrivata lunedì mattina, indirettamente, con un rapporto presentato alla sede delle Nazioni Unite da un centro studi canadese, finanziato dai governi svedese, norvegese, svizzero e britannico. Il risultato dell’Human Security Report, la prima e più completa ricognizione di cinque anni sulle guerre combattute dal 1946 a oggi, svela che la diffusione della democrazia, la globalizzazione, l’interdipendenza economica e il ricorso agli interventi di peacekeeping per prevenire e fermare i conflitti nel mondo, ha generato un gigantesco crollo del numero di guerre internazionali e delle guerre civili e, di conseguenza, anche dei genocidi e delle vittime in generale. Già all’inizio dell’anno, uno studio dell’Università del Maryland, finito sulla copertina del settimanale liberal The New Republic e più recentemente sul Corriere della Sera, aveva segnalato il recente declino del numero delle guerre, al contrario della percezione prevalente.
Il nuovo studio nasce in ambito Onu. L’autore del progetto è Andrew Mack, ex direttore strategico della programmazione con Kofi Annan, ed è stato presentato dall’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu. I dati della ricerca sono impressionanti. La fine della Guerra fredda, ottenuta dalla presidenza Reagan, ha quasi dimezzato il numero di conflitti armati nel mondo: meno 41 per cento. Tra il 1991 e il 2004 sono cominciati o sono ripartiti 28 conflitti armati per l’autodeterminazione, mentre ne sono stati risolti o terminati 43. Nel 2004 ci sono stati 24 secessioni armate, il numero più basso dal 1976. Nonostante gli orrori in Ruanda e a Srebrenica, il numero dei genocidi o delle stragi etnico-politiche è crollato dell’80 per cento tra il punto più alto raggiunto nel 1988 (grazie anche ai gas usati da Saddam contro i curdi) e il 2001.
Tra il 1981 e il 2001, le crisi internazionali sono crollate di oltre il 70 per cento. Il numero di rifugiati è diminuito del 45 per cento tra il 1992 e il 2003. Il traffico internazionale di armi, tra il 1990 e il 2003, è sceso del 33 per cento. Tra il 1994 e il 2003, in cinque regioni su sei del mondo in via di sviluppo c’è stata una diminuzione generale degli abusi di diritti umani. Più ambigui i risultati sul terrorismo: apparentemente le cose stanno andando peggio, anche se il dipartimento di Stato sostiene il contrario, ma l’unica cosa certa è che i picchi non sono di questi giorni, ma risalgono agli anni 90 e sono cresciuti a partire dagli anni 80, in seguito alla rivoluzione islamica in Iran e alla svolta terroristica nel mondo arabo. Le punte più alte sono, nell’ordine, del 1998, del 1995 e del 2001.
Il rapporto è una miniera di dati e di informazioni, alcune delle quali sfatano i miti radicati nell’opinione pubblica. Non solo, infatti, non è vero che cresce il numero dei conflitti armati, ma non è vero nemmeno che le guerre provocano più vittime rispetto al passato, che la stragrande maggioranza delle vittime si registri tra la popolazione civile, e che bambini e donne siano i primi a esserne colpiti. “Nessuna di queste cose si basa su informazioni credibili. Sono tutte sospette, alcune chiaramente false”, si legge nel rapporto. Curiosa la classifica dei paesi più inclini ai conflitti tra il 1946 e il 2003: gli Stati Uniti sono all’undicesimo posto, preceduti tra gli altri da Unione sovietica, Vietnam, Iraq e Francia. Quanto al numero di guerre combattute nello stesso periodo, la Francia è al secondo posto (19 guerre), dopo la Gran Bretagna (21), e prima degli Stati Uniti (16).
In generale, il rapporto traccia un trend bellico discendente da una quindicina di anni, cioè dal crollo dell’impero sovietico causato da una politica estera americana muscolare e antitotalitaria. Nel 1946 le democrazie erano soltanto 20, oggi sono 88, “molti analisti sostengono che questo trend democratico abbia ridotto la probabilità di guerre perché gli Stati democratici quasi mai si fanno la guerra”. Ovvero, detto in numeri, l’essenza della dottrina mediorientale di George W. Bush.

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