Il dopo Bush è già cominciato, nonostante manchino ancora tre anni alle prossime elezioni presidenziali. Non pensate a manovre di palazzo o a uscite di scena premature. Non ce ne saranno. Non c’entrano nemmeno l’Iraq, Katrina, il fallimento della riforma pensionistica o il basso gradimento del presidente nei sondaggi. Il punto è che George W. Bush, per il limite costituzionale dei due mandati, nel 2008 non si potrà ricandidare. Non solo. La novità è un’altra: per la prima volta in trent’anni, uno dei due candidati alla Casa Bianca non sarà né il presidente in carica né il suo vicepresidente. Il vicepresidente Dick Cheney non si candiderà, così dice. Questa decisione rende la campagna elettorale del novembre 2008 aperta e avvincente, soprattutto in ambito conservatore.
La corsa è già partita su entrambi i fronti, anche se solo sotto traccia. Ufficialmente inizierà dopo le elezioni di metà mandato che nel 2006 rinnoveranno parte dei seggi del Congresso, elezioni previste tra un anno esatto. Da lì in poi i “wannabe president” dei due partiti dovranno scoprirsi e annunciare la propria candidatura alle primarie, quelle vere. Oggi i contendenti sono una ventina, più della metà sono conservatori.
In queste ultime settimane, specie in ambito repubblicano, cioè nel partito del presidente, si è registrato uno strano movimento, un sincero malumore e una palpabile frenesia che sembra rimettere in discussione il collante che ha tenuto unita la coalizione vincitrice delle ultime elezioni. In realtà è più probabile che si tratti del tipico scollamento tra presidente e base che si registra nel secondo mandato. Ronald Reagan, per esempio, negli ultimi anni alla Casa Bianca fu accusato di non tagliare lo stato sociale, di cercare a tutti i costi un accordo con Michail Gorbaciov e rimase anche imbrigliato nello scandalo Iran-Contra. Eppure oggi è l’eroe che sconfisse il comunismo e salvò le libertà occidentali.
La causa scatenante dell’attuale discontento nei confronti di Bush, peraltro latente da tempo, è stata la decisione di nominare alla Corte suprema Harriet Miers, una consigliera giuridica della Casa Bianca priva di competenze specifiche in materia costituzionale. La scelta non è piaciuta a nessuno, o quasi, della destra americana: né ai conservatori tradizionali né agli editorialisti neocon; né ai social conservative né ai federalisti. Nei primi cinque anni di presidenza Bush, ciascuno di questi gruppi ha avuto una volta o l’altra di che lamentarsi delle politiche della Casa Bianca: chi perché contrario alla guerra contro Saddam, chi perché pretendeva un impegno maggiore, chi perché il deficit di bilancio è diventato incontrollabile, chi perché il peso dello Stato è aumentato più che mai. In tempo di guerra al terrorismo, la coalizione conservatrice è rimasta unita dietro la leadership bushiana e intorno ai due pilastri della sua politica interna: il taglio delle tasse e la certezza che alla prima occasione utile avrebbe finalmente riconsegnato la Corte suprema al suo compito originario.
I conservatori hanno un conto aperto con il consesso di nove giudici nominati a vita che garantisce le libertà americane stabilite dalla Costituzione. Credono sia l’ultima casamatta del potere liberal, insieme con le università d’elite dell’Ivy League e con i media dell’East Coast. Soprattutto pensano che la Corte suprema sia il luogo dove pochi giudici militanti promuovono un’agenda liberal e di sinistra regolarmente bocciata dagli elettori alle elezioni legislative e presidenziali. Al centro della rivendicazione non c’è questa o quella decisione non condivisa, come per esempio quella sull’aborto, piuttosto la filosofia e la dottrina giuridica che dovrebbe forgiare le sentenze dei giudici supremi. Quella prevalente, di stampo liberal, sostiene che la Costituzione sia un testo vivo, da interpretare secondo le esigenze del momento storico e in base agli “standard mutevoli che segnano il progresso di una società che matura”. Una dottrina che, secondo i conservatori, tradisce lo spirito della Costituzione e i principi del federalismo perché sottrae competenze legislative agli Stati a vantaggio della sfera federale di Washington. Secondo i conservatori, la Corte dovrebbe limitarsi a far rispettare la lettera della Costituzione così come è stata scritta, poi modificata e interpretata fino agli anni Quaranta.
La battaglia dura da decenni e, secondo i conservatori, è stata tradita da alcune scelte effettuate dai precendenti presidenti repubblicani: tre dei giudici nominati da Reagan e Bush padre, infatti, una volta entrati nella Corte hanno firmato sentenze in linea con la corrente liberal e di sinistra. Con Bush junior alla Casa Bianca, i conservatori erano certi che le cose sarebbero state rimesse a posto, invece la scelta di Harriet Miers ha deluso le attese. Il caso ha allargato la breccia nella coalizione, già aperta dai problemi in Iraq, dagli scandali che colpiscono o sfiorano i leader politici repubblicani al Congresso, dagli arresti di lobbysti e funzionari della Casa Bianca, dal caos post uragano Katrina, dal bilancio pubblico sempre più in rosso.
Di tutto ciò i democratici non sembrano essere in grado di approfittarne e comunque Bush potrebbe sempre riprendersi. Nel breve termine, cioè alle elezioni parlamentari del 2006, il caos dentro il mondo conservatore e la mancanza di una credibile alternativa democratica non dovrebbe mutare l’attuale e salda maggioranza conservatrice al Congresso. Il parziale rinnovo dei seggi riguarda più parlamentari democratici che repubblicani, mentre molti dei seggi in gioco si decidono in collegi o Stati nel 2004 vinti da Bush. E, infine, nelle casse dei repubblicani ci sono molti più soldi che in quelle degli avversari.
Prima di questo autunno, i calcoli politici della Casa Bianca dicevano che i repubblicani avrebbero addirittura aumentato il vantaggio di seggi, sia al Senato sia alla Camera. Ora, però, c’è un’incognita, legata proprio al grado di discontento del movimento conservatore dopo la nomina di Harriet Miers alla Corte suprema: una delle chiavi della vittoria presidenziale del novembre scorso è stata la grande mobilitazione popolare degli elettori evangelici, che è riuscita ad annullare il medesimo e gigantesco sforzo dei democratici sul fronte liberal e radical. Se i social conservative fossero davvero delusi dalle ultime mosse del presidente, potrebbero disertare le urne o essere meno attivi. A quel punto sarebbero a rischio i seggi della Pennsylvania e del Rhode Island, due Stati che a novembre avevano premiato lo sfidante di Bush, John Kerry. Il seggio della Pennsylvania è quello più importante, anche in chiave presidenziale. A difenderlo c’è Rick Santorum, un cattolico intransigente che spera di candidarsi alla Casa Bianca. I democratici gli hanno schierato contro Bob Casey, un democratico antiabortista, erede di un ex governatore della Pennsylvania al quale solo pochi anni fa i liberal vietarono di parlare alla Convention di partito proprio a causa delle sue posizioni pro life. In questo momento i sondaggi vedono Casey avanti di 18 punti e, se saranno confermati dalle urne, per Santorum la corsa alla Casa Bianca di due anni dopo diventerà più improbabile.
In generale, sia pure ufficiosamente, i conservatori oggi hanno quattro tipi di candidati alla Casa Bainca: i Front runners ombra, ovvero i veri favoriti se solo decidessero di scendere in campo; i Front runners ufficiali, ovvero quelli che oggi sono in prima fila; gli Underdogs, cioè le possibili sorprese; e, infine, l’Armata di Dio, i candidati dotati di una piattaforma politica fortemente incentrata sui valori e sulla religione.
I non candidati (Cheney, Rice, Jeb Bush)
I Front runners ombra sono tre: Dick Cheney, Condi Rice e Jeb Bush. Ciascuno di loro partirebbe avvantaggiato contro qualunque avversario del proprio campo, intanto perché sarebbe un segno di continuità con la presidenza Bush. Sono tutti e tre molto noti, ben più di qualsiasi altro concorrente repubblicano e, soprattutto Cheney e Bush, possono disporre di sofisticate e agguerrite macchine di raccolta fondi.
Cheney ha detto in tutti i modi che non si candiderà, anche se ultimamente lascia trapelare indiscrezioni più possibiliste. Al momento, con l’eccezione di Fred Barnes sul Weekly Standard, nessuno lo tira per la giacchetta. Diversa è la questione per Condi Rice. Sono parecchi i conservatori che la vorrebbero alla Casa Bianca, come dimostrano i comitati spontanei Condi2008 diffusissimi su Internet. Dick Morris, ex political advisor di Bill Clinton ma oggi avversario dell’ex presidente, sostiene che Rice sia l’unica in grado di sconfiggere Hillary Clinton, perché intaccherebbe il consenso dei democratici tra gli afroamericani e le donne. I sondaggi, in realtà, dicono il contrario. Secondo l’ultima rilevazione Fox News/Opinion Dynamics Poll, Hillary perderebbe contro tutti i candidati repubblicani tranne che con l’attuale segretario di Stato. Rice nega di volersi candidare e si considera un tecnico più che un politico.
Infine c’è Jeb Bush, il fratello minore del presidente, il figlio serio, secchione e preparato al quale Bush senior aveva in origine consegnato lo scettro politico familiare. In teoria Jeb è il candidato perfetto: governatore di uno Stato del Sud, anzi del più importante degli Stati del Sud, la Florida, fondamentale e decisivo con i suoi 27 voti presidenziali sempre in bilico tra i democratici e i repubblicani. Bush è cattolico, è amato dalla componente religiosa del partito, è sposato con una messicana ed è genitore di figli ispanici. Ed è un Bush. Un terzo Bush alla Casa Bianca probabilmente è troppo, come ha ammesso la stessa ex first lady Barbara, ma questo punto sfavorevole svanirebbe se sul fronte democratico ci fosse per la terza volta in pochi anni un candidato col cognome Clinton. Gli insiders nel Bush camp sostengono che il terzo Bush non ci sarà, almeno nel 2008. Circola però l’ipotesi che Jeb possa essere scelto come vicepresidente, in particolare di John McCain, pronto dunque a rimandare al 2012 o 2016 la sua candidatura.
I Front runners (McCain, Giuliani, Allen)
Il nome di McCain non è casuale. Il senatore dell’Arizona oggi è il favorito dai sondaggi ed è anche il beniamino dei giornali di sinistra per la sua assoluta indipendenza e capacità di agire di testa propria. Questa è anche la sua debolezza e, come ricorda il caso di Howard Dean, bisogna sempre diffidare degli entusiasmi e degli innamoramenti dei giornali. Nel 2000 è stato l’unico a contendere sul serio la candidatura di Bush, ma uscì dalle primarie con le ossa fatte a pezzi dalla mostruosa macchina da guerra bushiana. Gli indipendenti lo adorano, tutti apprezzano lo stile senza fronzoli di uno che dice pane al pane e vino al vino (“straight talk” era lo slogan della sua campagna 2000). L’anno scorso John Kerry gli chiese di fare il suo vice contro Bush, proprio per battere al centro il presidente in carica. McCain è un eroe americano, il ritratto vivente di un patriota e in tv è appena andata in onda una fiction sulla sua vita. In Vietnam è stato ospite, diciamo così, per ben cinque anni dell’Hanoi Hilton, il carcere dei vietcong. E’ stato torturato e nel corpo porta ancora i segni delle sevizie. Anche per questo si è battuto ed è riuscito a far approvare al Senato un emendamento che obbliga il Pentagono a trattare umanamente i propri detenuti, anche quelli accusati di terrorismo. Ma, attenzione: McCain, se possibile, è ancora più falco di Bush riguardo alla politica estera e di sicurezza, nonché sull’idea di democratizzare il medio oriente. Nel 2000 ebbe il sostegno della rivista neocon Weekly Standard e probabilmente l’avrà anche stavolta. Insieme con i neoconservatori ha criticato aspramente la gestione della guerra di Donald Rumsfeld, specie per aver fatto combattere agli Stati Uniti una guerra “on the cheap”, ovvero con pochi uomini e al risparmio. Allo stesso tempo, McCain è l’unico senatore americano, compresi quelli liberal, ad aver incontrato la mamma anti Bush, Cindy Sheehan. Sul fronte interno, McCain è un sostenitore del taglio delle tasse, ma al contrario di Bush anche del contenimento della spesa pubblica e dell’equilibrio del bilancio. Sui temi sociali è un conservatore tosto, antiabortista ma senza estremismi. Nel 2000 la base evangelica e religiosa gli voltò le spalle, dopo certi suoi giudizi non lusinghieri nei loro confronti, ma a poco a poco il senatore sta riconquistando posizioni e se avesse Jeb Bush come vicepresidente, e Karl Rove come consigliere politico, tutto sarebbe più facile. McCain è un uomo molto, forse troppo, scaramantico, ma anche Reagan si affidava a tarocchi e maghi. Paradossalmente per McCain sarà più difficile vincere le primarie repubblicane che la corsa alla Casa Bianca contro un avversario democratico. Oggi batterebbe Hillary 49 a 38, con il 12 per cento d’indecisi. Nella casella dei “contro” ci sono l’età (72 anni nel 2008), la tendenza ad agire e reagire d’istinto e, in generale, l’incognita di una difficile trasformazione da outsider anticonformista, al quale tutto è permesso, in un leader affidabile.
L’altro grande favorito è Rudy Giuliani, l’ex sindaco che prima ha ripulito New York, poi le ha dato la forza di reagire e ricominciare dopo l’11 settembre. A fronte di analisi affrettate sull’influenza degli evangelici nel partito, l’altro paradosso è che l’arcipelago conservatore preferirebbe candidare due dei suoi leader più liberal (il terzo, Arnold Schwarzenegger, non è candidabile perché nato all’estero). Giuliani forse lo è anche troppo, viste le sue posizioni pro choice, favorevoli ai diritti dei gay e alla regolamentazione del porto d’armi. La sua forza, ovviamente, è il tema della sicurezza e, come ha scritto David Brooks sul New York Times, dopo il caos degli aiuti a New Orleans nel paese c’è una forte richiesta di efficienza e law and order, cioè il pane per Giuliani.
L’altro candidato messo bene, anzi benissimo, è l’unico che ha già cominciato a fare esplicitamente campagna elettorale: il senatore nonché ex governatore della Virginia, George Allen, un cowboy con la faccia da attore hollywoodiano e figlio di uno dei più grandi allenatori di sempre del football americano NFL. Brillante e filobushiano su quasi tutto, Allen è il preferito del gruppo parlamentare repubblicano anche per una certa antipatia nei confronti dei cani sciolti come McCain e Giuliani.
Frist, Romney, Gingrich e Huckabee
Poi ci sono gli Underdogs, i candidati di seconda fila. Sono molto in ribasso le quotazioni del leader al Senato, Bill Frist. Intanto perché, in questo momento, è sfiorato da uno scandalo di insider trading per aver venduto quote azionarie dell’azienda di famiglia subito prima che il titolo crollasse in Borsa. Frist è stato descritto dai giornali come il capo dei social conservative, eppure ha un passato parecchio liberal. Al Senato ha provato a tenersi in equilibrio, ma sulla ricerca scientifica sugli embrioni ha votato con i democratici e contro la posizione restrittiva del presidente. Poche le chance di vincere le primarie, anche perché alla Convention del 2004 il suo discorso è stato giudicato uno dei più noiosi della manifestazione.
Mitt Romney è uno dei politici emergenti. Di religione mormone, è governatore del Massachussetts, lo Stato dell’intellighenzia liberal del paese. E se uno ha vinto in casa dei Kennedy, qualche argomento certamente ce l’ha. A breve dovrà decidere se ricandidarsi nel 2006 oppure rinunciare per preparare la corsa per la Casa Bianca. E’ un grande sostenitore della politica estera di Bush, ma è diventato una figura nazionale grazie al matrimonio gay legalizzato dalla Corte suprema locale e a una legge del Massachussetts sulla clonazione umana. Romney è contrario alle nozze omosessuali e alla clonazione, ma è favorevole alla ricerca sulle staminali embrionali.
Newt Gingrich è l’ex deputato che, a metà degli anni Novanta, con il suo Contratto con l’America fece conquistare al partito la Camera dopo 40 anni di dominio democratico. E’ un raffinato storico e letterato, è amato dai centri studi liberisti, condivide la dottrina Bush ed è uno dei pochi a sostenere le scelte presidenziali alla Corte suprema.
Mike Huckabee è nato ad Hope come Bill Clinton e, come l’ex presidente, può vantare di essere il governatore dell’Arkansas. Senza esperienza internazionale, il 48enne Huckabee è un affabulatore come Clinton. Negli ultimi mesi è dimagrito molto e lo si vede spesso in Iowa, la prima tappa delle primarie 2008. A chi obietta che, di fatto, sia uno sconosciuto, i suoi sostenitori rispondono: “Sì, come Clinton nel 1991”.
(Santorum e Brownback)
Nonostante tutto ciò che si è detto e scritto sul peso della religione tra i conservatori, i candidati cristiani sono i più deboli e senza reali possibilità di ottenere la vittoria. Santorum dovrà aspettare il voto del 2006. Alla fine il concorrente dell’armata di Dio potrebbe essere il senatore del Kansas Sam Brownback, sostenitore delle libertà in Iran e in Sudan, ma più noto per voler assottigliare il muro di separazione tra Stato e chiese. Non ci riuscirà.